Il mio pranzo memorabile
Davide Rampello, uno dei maggiori esperti italiani d’arte, e di gastronomia, ricorda con gusto i suoi piatti indimenticabili
Un collage appetitoso. Davide Rampello
Più che un pranzo ho in mente una serie di flash gastronomici. I più lontani: i «crostoli» della mia infanzia, una sorta di chiacchiere di pasta sottilissima fritta nello strutto e zuccherata; i «rufioi», stessa pasta ma ripieni della tipica mostarda di mele vicentina, e il polpettone, che faceva parte del limitato repertorio gastronomico di mia madre, insegnante di matematica e perciò più versata sui numeri che sulla cucina.
Il più pantagruelico: il «piatto dell’elefante», una portata di cinque chili di carni miste per la quale andava famoso negli anni Ottanta il ristorante Elefante di Bressanone, dove vigeva la tradizione che chi riusciva a mangiarlo tutto non pagava il conto. Io e mio fratello dopo averne fatto piazza pulita, siamo usciti e ci siamo rinfrancati con due piatti di knödel.
I più intriganti: i piatti «sperimentali» che negli anni Ottanta assaggiavo una volta alla settimana con Gualtiero Marchesi nel suo ristorante di via Bonvesin de la Riva per valutare se degni di essere messi in carta. A volte non era neppure necessario assaggiare, bastava il racconto perché, diceva lui, e ne ero lusingatissimo, «tu hai l’intuito gastronomico, assapori in bocca quello che si dice».
I più dotti: quelli della cena che ho ideato nel 1978 per l’apertura delle manifestazioni di celebrazione del quinto centenario della nascita di Giorgione a Castelfranco Veneto, dove ero responsabile della sezione di cultura materiale (in alto, il menu). Un evento quasi provocatorio in anni in cui nessuno ancora parlava di queste cose. Nove portate modellate sui menu di ricchi signori di campagna, senza la scenografia delle tavole principesche, che ho messo a punto nella lingua dell’epoca lavorando sul posto per due settimane nelle cucine del ristorante Rino Fior. C’erano, tra l’altro, i fiori di acacia che dovevano essere colti all’alba prima di aprirsi, e i semi di miglio dei biscotti per i quali abbiamo dovuto cercare la macina di pietra perché quella di ferro si scaldava rendendoli amari. Un evento che si è rivelato anche un esperimento di archeologia vegetale, materia di cui da allora mi occupo molto presidiando e recuperando varietà dismesse oggi diventate avamposti preziosi della diversità.
I più divertenti: le doppie cene che, da ospite privilegiato, mi erano concesse nella villa della contessa Sardi, in Lucchesia; dove prima scendevo nelle cucine e mangiavo col personale di servizio le minestre di erbe, il coniglio in potacchio, le frittate; poi salivo e passavo ai soufflé, ai pasticci di caccia, alle frivolezze della tavola padronale.
I più colti: tutti i piatti che ho guardato, annusato, assaggiato durante i viaggi nei più improbabili pit stop esotici: le cavallette fritte in una scuola di acrobati nella Turchia asiatica; la bevanda di mais masticato, sputato e fermentato del Perù; l’orcio pieno di brodo e grasso d’oca bollente da tenere prima tra le gambe per scaldarsi e poi da bere con vodka calda a nord della Romania, a 35 gradi sotto zero. Avevo cominciato a scrivere di questi e altri pranzi memorabili in un libro di viaggi intitolato «I cuochi fatui». Quasi quasi lo riprendo in mano.