Pause pranzo
Brunello Cucinelli ha trasformato un borgo umbro nella «capitale» del cashmere. Ora celebra i 40 anni dell’azienda riqualificando una periferia. Con una cantina, una mensa «benedettina» e un frutteto democratico al posto dei capannoni
Mangia, prega, ama. Brunello Cucinelli
Il pane caldo appena sfornato, che a tagliarlo ti scotti le mani, magari farcito di mortadella, ecco, vede, è la prova dell’esistenza di Dio». Brunello Cucinelli, 65 anni appena compiuti, parte dal cibo più godereccio per raccontare la sua visione, spiritualmente pragmatica, della vita. Siamo sulle colline umbre, a Solomeo, il borgo vicino a Perugia in cui nel 1985 decise di trasferire l’azienda e che ha restaurato in un percorso lungo 25 anni. Nel suo studio, una stanza enorme aperta sulla valle, un grafico candore, ai muri ci sono le immagini di pensatori e filosofi, in un angolo il busto di Giulio Cesare, uno dei suoi mentori insieme a Kant, Socrate e all’imperatore Adriano che ricorda come fossero gli amici del bar che frequentava da studente annoiato, «la mia miglior scuola». Durante la nostra conversazione li citerà tutti, con il suo accento umbro e una parlata teatrale che oscilla continuamente tra toni bassi e alti.
Ribattezzato il «re del cashmere» – 1700 persone dipendenti nel mondo, di cui 1000 solo a Solomeo –, Cucinelli è conosciuto per i suoi capi pregiati (indossati anche da Angelina Jolie e dal principe William d’Inghilterra). La sua intuizione, colorare il cashmere, l’ha portato lontano. Autodidatta «cresciuto in campagna senza luce elettrica e televisione», alle spalle un diploma di geometra, oggi vanta una laurea honoris causa in Filosofia ed Etica dei rapporti umani e amministra un’azienda quotata in Borsa, che quest’anno festeggia 40 anni. È divenuta nel mondo un modello di virtù per l’alto «fattore umano», ovvero il benessere dei suoi dipendenti, in media sui 35 anni. A siglare questa tappa un libro (Il Sogno di Solomeo, la mia vita e l’idea del capitalismo umanistico, Feltrinelli) e la presentazione del nuovo «Progetto per la
bellezza». Iniziato con il restauro del borgo, il «Tributo alle arti», che prevedeva la fondazione delle scuole dei mestieri (sette, dal cucito all’orticoltura) e la costruzione del Teatro Cucinelli, ora si è concluso con la realizzazione di tre parchi (dell’industria, dell’oratorio laico, destinato ai bambini, e del parco agrario).
Ha coltivato 70 ettari destinati a orti, vigneti, oliveti e creato un frutteto aperto a tutti: un ritorno alle sue origini contadine?
«Vede, il mio sogno era quello di rendere la vita lavorativa più umana. Prima del pane viene la dignità: le ho voluto dedicare anche un monumento. Ispirato agli antichi greci, è fatto per durare nei secoli. L’ho fatto costruire con gli stessi principi costruttivi del Colosseo».
Come le è venuta l’idea?
«Nel tempo ho rilevato diversi ettari di terreno qui ai piedi di Solomeo: un’ex periferia piena di capannoni costruiti negli anni Settanta. Li ho smantellati. Mio padre mi disse: “Te sei matto, ma fai quello che credi”. Le periferie sono il problema del mondo e mi piace presentare questo progetto nella valle da dove sta ripartendo un futuro di straordinaria rinascita civile, umana, spirituale».
In questo disegno c’è anche un ristorante aziendale per 800 persone: è vero che i suoi dipendenti hanno un’ora e mezza di pausa pranzo?
«Sì, all’una precisa una sirena avvisa che il pranzo è in tavola e bisogna staccare, trovare spazio per altro. Mi sono ispirato alle mense benedettine e alla mia infanzia in campagna. Chi vuole può anche andare a casa a riposarsi, stare con la sua famiglia. Serviamo piatti semplici e genuini. E non mancano mai ottimi rigatoni al pomodoro. Ma nella vita, come a tavola, ci vuole moderazione».
Che cosa intende?
«I benedettini dal 13 settembre alla Pasqua mangiano una sola volta al giorno e vegetariano. Solo in estate fanno due pasti, di cui uno è una merenda. Ammiro questa morigeratezza. Ricordo che in campagna si faceva la prima colazione alle 4, prima della mungitura, la seconda comprendeva i salumi o la carne. A pranzo c’era la pasta e la sera una minestra. Se si mangia tardi e pesante si va a letto gonfi. Ci vogliono regole, anche a tavola».
Quali?
«Nella nostra mensa, per esempio, si cerca di favorire l’aggregazione. I tavoli, da 6 a 10 persone al massimo, hanno i posti assegnati. Ai dipendenti chiedo di non lasciare giacche e cappotti sulle sedie ma nei guardaroba».
Come mai?
«L’ordine dà serenità. L’abitudine eternità. Ancora una volta, insegnamenti benedettini. Vado dai monaci a Norcia (Cucinelli ha aiutato a ricostruire l’antico convento distrutto dal terremoto, ndr) di tanto in tanto, a pranzo: mi “risolve” lo spirito, gli affanni. Il pasto si consuma in silenzio, in mezz’ora al massimo. Con loro produco anche la birra».
Chi prepara i pasti per i suoi dipendenti invece?
«Un bravo cuoco (Moreno Alunni Proietti, ndr), con cui mi diverto qualche volta a discutere il menu. Ha uno staff di dodici persone, che comprende anche alcune signore dei paesi limitrofi. Ogni