Cosa si mangia in Spagna
Questa è Madrid
Ho sempre amato Madrid con tutta l’anima. I suoi cieli spesso tersi, quest’aria asciutta che rende tutto lucido, i grandi viali e l’attitudine delle persone, calda e timida allo stesso tempo. E queste notti dove la luce dura di più per via dell’orario sempre uguale anche al nostro per scelta di Francisco Franco che voleva che le lancette segnassero la stessa ora degli alleati di Berlino e di Roma. C’è sempre un sorriso a Madrid, nella capitale che Lope de Vega chiamava Hermosa Babilonia e che ha fatto innamorare Hemingway in Fiesta. Oltre 3 milioni di abitanti, capitale di Spagna nonché città ponte verso le Americhe, Madrid è un luogo dove perdersi per ristoranti ma anche per bar di tapas.
Possiamo iniziare dal barrio Salamanca, il più chic. Si vede dai palazzi ottocenteschi che le guerre hanno solo sfiorato, dalle boutique certo, ma ancora di più dalle signore con la carnagione bianchissima, i capelli coiffati e i grandi bracciali d’oro a ornare le braccia con le vene azzurrine, che passeggiano per la calle de Velázquez. E poi il profumo un po’ talcato, in Spagna un’icona, non a caso siamo in un Paese dove il consumo pro capite per la cura della persona è poco sotto l’investimento che si fa ogni anno per l’abbigliamento. Per pranzare, vi suggerisco di andare da Joselito dove si assaggia il miglior jamón ibérico di Spagna. L’azienda familiare giunta alla sesta generazione ha appena compiuto 150 anni e produce un prosciutto con metodi completamente naturali. In 170mila ettari di terreno allevano tra i 10 e i 45mila maiali ogni anno. «Il sapore cambia a seconda delle condizioni atmosferiche che influenzano la produzione di ghiande, unica fonte di alimentazione dei nostri animali», spiega José Gómez, il più giovane dell’azienda. Ogni maiale può pascolare in almeno 3 ettari di terreno e la carne, che stagiona dai 3 fino ai 12 anni, è completamente naturale tanto che ci sono ricerche dell’Università di Salamanca e della Mayo Clinic di Houston che dicono faccia addirittura scendere i livelli di colesterolo. Al ristorante propongono una verticale, ovvero una degustazione di Gran Reserva con le «annate» 2012-13-14. Consiglio: assaggiate
senza pane per sentire la differenza di aroma e di consistenza. Per me il 2013 è superlativo, anche se José dichiara che la loro annata mitica è stata il 2005, ma ormai se lo sono mangiato tutto. Esperienza diversa è andare a cena da Amazónico, a poche
manzanas di distanza (manzana in spagnolo vuol dire mela ma anche isolato). Il ristorante è un viaggio lungo il Rio delle Amazzoni come dice Sandro Silva, creatore del luogo con la moglie Marta Seco. «Si mangia cucina brasiliana come la mia origine, ma anche peruviana e di molti Paesi sudamericani», e l’esperienza è per sempre. Intanto la bellezza del locale. Design geniale di Lázaro Rosa-Violán che ti fa sentire in una giungla elegante con una giraffa di paglia nel centro del dehors. In città, alcuni dicono che il luogo è da postureo o meglio per farsi vedere, in realtà è un’esperienza sublime anche e soprattutto nel cibo. Del resto quale ristorante non lo è, altrimenti uno sta a casa, no? Materia prima eccellente, «non guardo i prezzi», dice Sandro, «compro solo il meglio», ricette che hanno il sapore delle cose buone del mondo. Se siete persi nel menu e state già bevendo un delizioso Curry & Caimán (Jack Daniel’s, ananas, lime, frutto della passione, cannella e curry), magari distratti dal forno tandoori o dai pesci che cuociono sulla brace, ordinate Usuzukuri de hamachi y tomate cherry, uno dei classici: pesce crudo di freschezza inaudita reso sensuale dall’acidità del frutto della passione e dei pomodorini gialli. Proseguite poi con un Chaufa integral de pato al tucupi, o meglio del riso nero con l’anatra, un mix che non mi sarei aspettata, buono da svenire. «Ogni piatto nasce da un accurato brainstorming che facciamo tutti insieme in una cucina dove abbiamo trenta nazionalità distinte e ognuno può dire la sua», aggiunge Giovanni Campoo, executive chef di tutto il Grupo Paraguas di cui Amazónico è solo uno dei cinque locali. Sembra di essere alle Nazioni Unite! «Sandro è un cuoco ed era il suo sogno aprire un ristorante e io ho sostenuto il suo desiderio», dice Marta. Si sono conosciuti a una festa del vicinato quando lei aveva 15 anni a Oviedo, la loro città. Sandro era lì come amico di un cugino della padrona di casa e i destini si sono incrociati. «Ci siamo fidanzati in plaza del Paraguas e abbiamo chiamato così il primo
ristorante nonché il gruppo». Ora Sandro e Marta hanno anche da poco aperto Numa Pompilio, il loro primo locale italiano, il contrario esatto del nostro concetto di pizza e mandolino. Quando ci hanno dato appuntamento lì ero molto scettica. Perché un italiano dovrebbe venire a mangiare la sua cucina a Madrid? E poi mi hanno convinto. Nella terrazza esterna riscaldata, sempre tra piante rigogliose (poco tempo fa c’è passata anche Michelle Obama), ho assaggiato come debutto la mortadella di aperitivo leggermente tartufata di Negrini, poi i tagliolini con uovo della Galizia e funghi freschi serviti in una mezza forma di pecorino. Infine hanno vinto i miei ultimi pregiudizi con il tiramisù che presentano in tavola scomposto e lo rimettono insieme davanti ai tuoi occhi. Nel mascarpone c’è una buona percentuale di bianco d’uovo montato a neve che rende volatile una crema che di solito è un macigno, i biscotti vengono imbevuti al momento quindi si evita quell’effetto un po’, come dire, stagnante. Da provare subito. Il bello di assaggiare la cucina italiana immaginata da stranieri è che loro non hanno paura di sfidare i tabù.
Avrete notato sfogliando queste pagine che a Madrid e in Spagna in generale si mangiano molte uova. Le abbiamo già nel riso con l’anatra, nei tagliolini, ma il piatto tipico in cui trionfa è la tortilla. Quando siete con i locali li ascolterete ore discutere su dove si mangia la migliore della città. Un po’ come noi quando ci fissiamo sulla pizza. Nel barrio Salamanca abbiamo scoperto Casa Dani di fianco al mercato del quartiere. È un bar tradizionale con la televisione sempre accesa, dove i camerieri sorridono tutti e ti chiamano cariño: c’è il proverbiale calore della Spagna che ha fatto innamorare Pedro Almodóvar (ha girato la maggior parte dei suoi film con questo spirito). Sfilano tortillas belle sugose che, dicono (è scritto sulla porta), sono le più buone del pianeta e il loro huevo roto, un uovo al tegame su un letto di patate fritte e prosciutto tanto scorretto per il colesterolo, tanto corretto per la gioia dello spirito. Dopo ci si sente migliori.
Anche se il luogo di elezione della tortilla in realtà è il quartiere de La Latina, più popolare, a sud ovest della Puerta del Sol e a una ventina di minuti di taxi dal barrio Salamanca (n.b.: i taxi qui costano meno che in Italia, una corsa così circa 8 euro). È una delle zone più antiche della capitale e si dice che il nome coincida con un ospedale fondato nel 1500. Grandi piazze, strade strette tipiche dell’architettura medievale, è un momento di calma nel caos. Bambini che giocano sotto lo sguardo
Gli spagnoli sono a loro agio nell o scardinare i nostri piatti tradizionali e riproporli in modo completamente nuovo
dei genitori, giovani che suonano, tanti tavolini per mangiare le cose più diverse o solo chiacchierare. Ci siamo seduti per puro istinto a Juana la Loca per poi scoprire che eravamo caduti nel tempio della tortilla in competizione vivissima con Casa Lucio a pochi metri di distanza. Da Juana la Loca servono l’incredibile uovo confit con tartufo e «abito» di pata negra (sì, sempre uovo) e la tortilla con la cipolla caramellata. Sono vent’anni che alimentano bene il quartiere e infatti tutti ne parlano con religioso rispetto. Diametralmente opposto per ideologia e posizione, di fianco alla cappella di Santa María y San Juan de Letrán (conclusa a metà del millennio scorso) c’è il piccolo ristorante Viva la Vida di Magdalena Madariaga. All’inizio non mi ero nemmeno accorta che fosse vegano tanta l’abbondanza e la bontà (e l’allegria) dei cibi. Abbiamo ordinato un hamburger di sua invenzione con 18 ingredienti vegetali diversi in una ➝
In questa città la crisi si è sentita, ma ora le gru che si vedono dalla terrazza del Círculo de Bellas Artes sono il simbolo della ricostruzione
città dove va di moda mangiare la zebra e il canguro in questo momento, bevuto un succo di mela con la spirulina per massaggiare la coscienza e anche un succo di barbabietola, carota e ananas che era una bomba di bontà. «Cucinare è un atto d’amore», ha aggiunto la proprietaria e cuoca del locale con un sorriso smagliante.
Diverso scenario è il ristorante due stelle della guida Michelin Dstage. Si trova in Calle de Regueros, una piccola strada dove senti subito un profumo di pane intenso. In effetti a pochi metri dall’entrata del locale c’è un supermercato biologico e una panetteria chiamata La Magdalena
de Proust (non soffro di complessi, non sto cercando il mio nome in tutta la città). Dietro al bancone Laura Martínez, una ragazza bionda e sorridente, spiega che è anche fornitrice del ristorante che stiamo per provare. Il loro pane è preparato con lievito madre e fermentato per 48 ore, tutto è altamente artigianale (forno e laboratorio sono nel negozio a pochi metri da me), il loro slogan è Pan de verdad (pane per davvero). Dico «loro» perché insieme a Laura c’è anche il marito Néstor e insieme, prima di dedicarsi agli alimenti, hanno lavorato in qualità di art director nel cinema con Carlos Saura (tra i registi più influenti di Spagna con Luis Buñuel e Almodóvar). «La gente prima acquistava il pane congelato dal benzinaio, ora si sta abituando alla qualità». Il successo è tale che stanno per inaugurare una panaderia gemella anche in calle Bravo Murillo 52 nel quartiere di Chamberí. Obbligatorio assaggiare le loro empanadas (fagottini ripieni di carne che vendono a getto continuo nell’intervallo di tempo passato con loro), ma anche il pane con il farro integrale e quello 100% integrale.
Quando entriamo da Dstage stiamo ancora sgranocchiando la crosta con il sesamo di Laura. Qui sembra di stare a New York, design contemporaneo postindustriale, cocktail da svenire,
una cucina molto concettuale e deliziosa. Diego Guerrero, il cuoco, è l’uomo del momento in città e i suoi piatti puntano all’essenza. Il suo motto è «assaggia, stupisci e cresci». Chissà in quale direzione? Peso, spirito, altezza... Chissà se si è ispirato ai tanti dipinti gastronomici esposti al Museo Nacional Thyssen-Bornemisza? «Abbiamo un itinerario che incrocia pittura e cibo. Un modo per mostrare diversamente l’arte e avvicinare le persone attraverso un altro punto di vista», spiega Evelio Acevedo, direttore del museo. Nei mille quadri della collezione permanente dedicati alla cultura occidentale ci sono dipinti che raffigurano una strada di Madrid con i carri carichi di cibo di Jan van Kessel. O ancora intensissimi still life di gatti e pesci (o meglio i primi sul punto di mangiare i secondi) del pittore francese seicentesco Jean-BaptisteSiméon Chardin o ancora una cuoca dello stesso periodo dell’artista olandese Gabriel Metsu. Scene quotidiane dal passato che ci danno informazioni come nitide fotografie su come si mangiava prima e che vedremo raccontate e interpretate dai venti più famosi cuochi di Spagna, in un libro di ricette del museo che uscirà a novembre. Ma il rapporto con il cibo non si ferma qui perché al Thyssen hanno anche DelicaThyssen, una collezione di accessori da cucina e di prodotti gastronomici come l’olio extravergine di oliva in latte illustrate con i dipinti di Jacques Linard o i tetrabrik di acqua dove compare la Venezia di Canaletto. La cultura dialoga con il cibo, la città si muove, finiamo con un aperitivo sulla terrazza del Círculo de Bellas Artes, con la vista sulla metropoli. Ci sono tante gru che si stagliano sul panorama, simbolo di una ricostruzione post crisi. C’è un’atmosfera intensa, vivace, allegra, come spesso solo la Spagna sa dare. Per carità non chiamiamola movida, ma solo vida, vita!