La Cucina Italiana

Cosa si mangia in Spagna

Questa è Madrid

- di MADDALENA FOSSATI, foto GIACOMO BRETZEL

Ho sempre amato Madrid con tutta l’anima. I suoi cieli spesso tersi, quest’aria asciutta che rende tutto lucido, i grandi viali e l’attitudine delle persone, calda e timida allo stesso tempo. E queste notti dove la luce dura di più per via dell’orario sempre uguale anche al nostro per scelta di Francisco Franco che voleva che le lancette segnassero la stessa ora degli alleati di Berlino e di Roma. C’è sempre un sorriso a Madrid, nella capitale che Lope de Vega chiamava Hermosa Babilonia e che ha fatto innamorare Hemingway in Fiesta. Oltre 3 milioni di abitanti, capitale di Spagna nonché città ponte verso le Americhe, Madrid è un luogo dove perdersi per ristoranti ma anche per bar di tapas.

Possiamo iniziare dal barrio Salamanca, il più chic. Si vede dai palazzi ottocentes­chi che le guerre hanno solo sfiorato, dalle boutique certo, ma ancora di più dalle signore con la carnagione bianchissi­ma, i capelli coiffati e i grandi bracciali d’oro a ornare le braccia con le vene azzurrine, che passeggian­o per la calle de Velázquez. E poi il profumo un po’ talcato, in Spagna un’icona, non a caso siamo in un Paese dove il consumo pro capite per la cura della persona è poco sotto l’investimen­to che si fa ogni anno per l’abbigliame­nto. Per pranzare, vi suggerisco di andare da Joselito dove si assaggia il miglior jamón ibérico di Spagna. L’azienda familiare giunta alla sesta generazion­e ha appena compiuto 150 anni e produce un prosciutto con metodi completame­nte naturali. In 170mila ettari di terreno allevano tra i 10 e i 45mila maiali ogni anno. «Il sapore cambia a seconda delle condizioni atmosferic­he che influenzan­o la produzione di ghiande, unica fonte di alimentazi­one dei nostri animali», spiega José Gómez, il più giovane dell’azienda. Ogni maiale può pascolare in almeno 3 ettari di terreno e la carne, che stagiona dai 3 fino ai 12 anni, è completame­nte naturale tanto che ci sono ricerche dell’Università di Salamanca e della Mayo Clinic di Houston che dicono faccia addirittur­a scendere i livelli di colesterol­o. Al ristorante propongono una verticale, ovvero una degustazio­ne di Gran Reserva con le «annate» 2012-13-14. Consiglio: assaggiate

senza pane per sentire la differenza di aroma e di consistenz­a. Per me il 2013 è superlativ­o, anche se José dichiara che la loro annata mitica è stata il 2005, ma ormai se lo sono mangiato tutto. Esperienza diversa è andare a cena da Amazónico, a poche

manzanas di distanza (manzana in spagnolo vuol dire mela ma anche isolato). Il ristorante è un viaggio lungo il Rio delle Amazzoni come dice Sandro Silva, creatore del luogo con la moglie Marta Seco. «Si mangia cucina brasiliana come la mia origine, ma anche peruviana e di molti Paesi sudamerica­ni», e l’esperienza è per sempre. Intanto la bellezza del locale. Design geniale di Lázaro Rosa-Violán che ti fa sentire in una giungla elegante con una giraffa di paglia nel centro del dehors. In città, alcuni dicono che il luogo è da postureo o meglio per farsi vedere, in realtà è un’esperienza sublime anche e soprattutt­o nel cibo. Del resto quale ristorante non lo è, altrimenti uno sta a casa, no? Materia prima eccellente, «non guardo i prezzi», dice Sandro, «compro solo il meglio», ricette che hanno il sapore delle cose buone del mondo. Se siete persi nel menu e state già bevendo un delizioso Curry & Caimán (Jack Daniel’s, ananas, lime, frutto della passione, cannella e curry), magari distratti dal forno tandoori o dai pesci che cuociono sulla brace, ordinate Usuzukuri de hamachi y tomate cherry, uno dei classici: pesce crudo di freschezza inaudita reso sensuale dall’acidità del frutto della passione e dei pomodorini gialli. Proseguite poi con un Chaufa integral de pato al tucupi, o meglio del riso nero con l’anatra, un mix che non mi sarei aspettata, buono da svenire. «Ogni piatto nasce da un accurato brainstorm­ing che facciamo tutti insieme in una cucina dove abbiamo trenta nazionalit­à distinte e ognuno può dire la sua», aggiunge Giovanni Campoo, executive chef di tutto il Grupo Paraguas di cui Amazónico è solo uno dei cinque locali. Sembra di essere alle Nazioni Unite! «Sandro è un cuoco ed era il suo sogno aprire un ristorante e io ho sostenuto il suo desiderio», dice Marta. Si sono conosciuti a una festa del vicinato quando lei aveva 15 anni a Oviedo, la loro città. Sandro era lì come amico di un cugino della padrona di casa e i destini si sono incrociati. «Ci siamo fidanzati in plaza del Paraguas e abbiamo chiamato così il primo

ristorante nonché il gruppo». Ora Sandro e Marta hanno anche da poco aperto Numa Pompilio, il loro primo locale italiano, il contrario esatto del nostro concetto di pizza e mandolino. Quando ci hanno dato appuntamen­to lì ero molto scettica. Perché un italiano dovrebbe venire a mangiare la sua cucina a Madrid? E poi mi hanno convinto. Nella terrazza esterna riscaldata, sempre tra piante rigogliose (poco tempo fa c’è passata anche Michelle Obama), ho assaggiato come debutto la mortadella di aperitivo leggerment­e tartufata di Negrini, poi i tagliolini con uovo della Galizia e funghi freschi serviti in una mezza forma di pecorino. Infine hanno vinto i miei ultimi pregiudizi con il tiramisù che presentano in tavola scomposto e lo rimettono insieme davanti ai tuoi occhi. Nel mascarpone c’è una buona percentual­e di bianco d’uovo montato a neve che rende volatile una crema che di solito è un macigno, i biscotti vengono imbevuti al momento quindi si evita quell’effetto un po’, come dire, stagnante. Da provare subito. Il bello di assaggiare la cucina italiana immaginata da stranieri è che loro non hanno paura di sfidare i tabù.

Avrete notato sfogliando queste pagine che a Madrid e in Spagna in generale si mangiano molte uova. Le abbiamo già nel riso con l’anatra, nei tagliolini, ma il piatto tipico in cui trionfa è la tortilla. Quando siete con i locali li ascolteret­e ore discutere su dove si mangia la migliore della città. Un po’ come noi quando ci fissiamo sulla pizza. Nel barrio Salamanca abbiamo scoperto Casa Dani di fianco al mercato del quartiere. È un bar tradiziona­le con la television­e sempre accesa, dove i camerieri sorridono tutti e ti chiamano cariño: c’è il proverbial­e calore della Spagna che ha fatto innamorare Pedro Almodóvar (ha girato la maggior parte dei suoi film con questo spirito). Sfilano tortillas belle sugose che, dicono (è scritto sulla porta), sono le più buone del pianeta e il loro huevo roto, un uovo al tegame su un letto di patate fritte e prosciutto tanto scorretto per il colesterol­o, tanto corretto per la gioia dello spirito. Dopo ci si sente migliori.

Anche se il luogo di elezione della tortilla in realtà è il quartiere de La Latina, più popolare, a sud ovest della Puerta del Sol e a una ventina di minuti di taxi dal barrio Salamanca (n.b.: i taxi qui costano meno che in Italia, una corsa così circa 8 euro). È una delle zone più antiche della capitale e si dice che il nome coincida con un ospedale fondato nel 1500. Grandi piazze, strade strette tipiche dell’architettu­ra medievale, è un momento di calma nel caos. Bambini che giocano sotto lo sguardo

Gli spagnoli sono a loro agio nell o scardinare i nostri piatti tradiziona­li e riproporli in modo completame­nte nuovo

dei genitori, giovani che suonano, tanti tavolini per mangiare le cose più diverse o solo chiacchier­are. Ci siamo seduti per puro istinto a Juana la Loca per poi scoprire che eravamo caduti nel tempio della tortilla in competizio­ne vivissima con Casa Lucio a pochi metri di distanza. Da Juana la Loca servono l’incredibil­e uovo confit con tartufo e «abito» di pata negra (sì, sempre uovo) e la tortilla con la cipolla caramellat­a. Sono vent’anni che alimentano bene il quartiere e infatti tutti ne parlano con religioso rispetto. Diametralm­ente opposto per ideologia e posizione, di fianco alla cappella di Santa María y San Juan de Letrán (conclusa a metà del millennio scorso) c’è il piccolo ristorante Viva la Vida di Magdalena Madariaga. All’inizio non mi ero nemmeno accorta che fosse vegano tanta l’abbondanza e la bontà (e l’allegria) dei cibi. Abbiamo ordinato un hamburger di sua invenzione con 18 ingredient­i vegetali diversi in una ➝

In questa città la crisi si è sentita, ma ora le gru che si vedono dalla terrazza del Círculo de Bellas Artes sono il simbolo della ricostruzi­one

città dove va di moda mangiare la zebra e il canguro in questo momento, bevuto un succo di mela con la spirulina per massaggiar­e la coscienza e anche un succo di barbabieto­la, carota e ananas che era una bomba di bontà. «Cucinare è un atto d’amore», ha aggiunto la proprietar­ia e cuoca del locale con un sorriso smagliante.

Diverso scenario è il ristorante due stelle della guida Michelin Dstage. Si trova in Calle de Regueros, una piccola strada dove senti subito un profumo di pane intenso. In effetti a pochi metri dall’entrata del locale c’è un supermerca­to biologico e una panetteria chiamata La Magdalena

de Proust (non soffro di complessi, non sto cercando il mio nome in tutta la città). Dietro al bancone Laura Martínez, una ragazza bionda e sorridente, spiega che è anche fornitrice del ristorante che stiamo per provare. Il loro pane è preparato con lievito madre e fermentato per 48 ore, tutto è altamente artigianal­e (forno e laboratori­o sono nel negozio a pochi metri da me), il loro slogan è Pan de verdad (pane per davvero). Dico «loro» perché insieme a Laura c’è anche il marito Néstor e insieme, prima di dedicarsi agli alimenti, hanno lavorato in qualità di art director nel cinema con Carlos Saura (tra i registi più influenti di Spagna con Luis Buñuel e Almodóvar). «La gente prima acquistava il pane congelato dal benzinaio, ora si sta abituando alla qualità». Il successo è tale che stanno per inaugurare una panaderia gemella anche in calle Bravo Murillo 52 nel quartiere di Chamberí. Obbligator­io assaggiare le loro empanadas (fagottini ripieni di carne che vendono a getto continuo nell’intervallo di tempo passato con loro), ma anche il pane con il farro integrale e quello 100% integrale.

Quando entriamo da Dstage stiamo ancora sgranocchi­ando la crosta con il sesamo di Laura. Qui sembra di stare a New York, design contempora­neo postindust­riale, cocktail da svenire,

una cucina molto concettual­e e deliziosa. Diego Guerrero, il cuoco, è l’uomo del momento in città e i suoi piatti puntano all’essenza. Il suo motto è «assaggia, stupisci e cresci». Chissà in quale direzione? Peso, spirito, altezza... Chissà se si è ispirato ai tanti dipinti gastronomi­ci esposti al Museo Nacional Thyssen-Bornemisza? «Abbiamo un itinerario che incrocia pittura e cibo. Un modo per mostrare diversamen­te l’arte e avvicinare le persone attraverso un altro punto di vista», spiega Evelio Acevedo, direttore del museo. Nei mille quadri della collezione permanente dedicati alla cultura occidental­e ci sono dipinti che raffiguran­o una strada di Madrid con i carri carichi di cibo di Jan van Kessel. O ancora intensissi­mi still life di gatti e pesci (o meglio i primi sul punto di mangiare i secondi) del pittore francese seicentesc­o Jean-BaptisteSi­méon Chardin o ancora una cuoca dello stesso periodo dell’artista olandese Gabriel Metsu. Scene quotidiane dal passato che ci danno informazio­ni come nitide fotografie su come si mangiava prima e che vedremo raccontate e interpreta­te dai venti più famosi cuochi di Spagna, in un libro di ricette del museo che uscirà a novembre. Ma il rapporto con il cibo non si ferma qui perché al Thyssen hanno anche DelicaThys­sen, una collezione di accessori da cucina e di prodotti gastronomi­ci come l’olio extravergi­ne di oliva in latte illustrate con i dipinti di Jacques Linard o i tetrabrik di acqua dove compare la Venezia di Canaletto. La cultura dialoga con il cibo, la città si muove, finiamo con un aperitivo sulla terrazza del Círculo de Bellas Artes, con la vista sulla metropoli. Ci sono tante gru che si stagliano sul panorama, simbolo di una ricostruzi­one post crisi. C’è un’atmosfera intensa, vivace, allegra, come spesso solo la Spagna sa dare. Per carità non chiamiamol­a movida, ma solo vida, vita!

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 ??  ?? Palacio Metrópolis sull’angolo di Gran Via, una delle strade più famose della capitale spagnola. Sotto, José Gómez, quinta generazion­e della «stirpe Joselito» che produce un jamón ibérico sensaziona­le. Nella pagina accanto, la giraffa del dehors e pesci allo spiedo da Amazónico.
Palacio Metrópolis sull’angolo di Gran Via, una delle strade più famose della capitale spagnola. Sotto, José Gómez, quinta generazion­e della «stirpe Joselito» che produce un jamón ibérico sensaziona­le. Nella pagina accanto, la giraffa del dehors e pesci allo spiedo da Amazónico.
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 ??  ?? Sandro e Marta Silva sono marito e moglie ma anche le menti del Grupo Paraguas che con 5 ristoranti a Madrid ha cambiato il modo di mangiare (bene) in città. In alto, i tagliolini con i funghi nella forma di pecorino da Numa Pompilio.
Sandro e Marta Silva sono marito e moglie ma anche le menti del Grupo Paraguas che con 5 ristoranti a Madrid ha cambiato il modo di mangiare (bene) in città. In alto, i tagliolini con i funghi nella forma di pecorino da Numa Pompilio.
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 ??  ?? Sotto, gli hamburger vegani di Viva la vida; a destra, il Parco del Retiro e il cuoco Diego Guerrero di Dstage con un suo piatto a base di midollo di cervo. Nella pagina accanto, Evelio Acevedo, direttore del Museo Nacional Thyssen-Bornemisza; il tapas bar Juana la Loca.
Sotto, gli hamburger vegani di Viva la vida; a destra, il Parco del Retiro e il cuoco Diego Guerrero di Dstage con un suo piatto a base di midollo di cervo. Nella pagina accanto, Evelio Acevedo, direttore del Museo Nacional Thyssen-Bornemisza; il tapas bar Juana la Loca.
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