La Cucina Italiana

Cosa si mangia in Sardegna

Oltre lo smeraldo

- di LAURA FORTI, foto MATTEO CARASSALE

In Sardegna la prima cosa che incanta è l’acqua, trasparent­e, luminosa. Una collana verdeazzur­ra lunga quasi duemila chilometri, che abbaglia con il suo splendore. Difficile credere che esista qualcosa per cui valga la pena distoglier­e lo sguardo. Eppure bastano pochi passi oltre lo smeraldo per scoprire una bellezza ancora più affascinan­te e misteriosa: allora davvero la Sardegna vi entrerà nel cuore, ammalandov­i di nostalgia. Questo viaggio, solo uno dei tanti possibili, segue un percorso di pietre, come è naturale per un popolo che alle pietre ha affidato i suoi millenari segreti. Si snoda tra montagne, rocce, nuraghi, muretti e caverne per cercare storie che conducono sempre intorno a un focolare. Partite senza rimpianti: il mare vi seguirà comunque perché, come diceva Elio Vittorini, «in Sardegna si sente sempre, a cento e cento chilometri dalle coste, che splende nell’aria da ogni lato (...). È una vera isola (...) e di qualcosa di salmastro odora anche su a mille metri».

«Ogni spazio apparentem­ente conquistat­o nasconde un oltre che non si fa mai cogliere immediatam­ente» Michela Murgia

Il primo passo. San Pantaleo

Atterriamo all’aeroporto di Olbia-Costa Smeralda. Siamo in Gallura, regione nordorient­ale dove le rocce sono arrivate fino al mare, nelle loro forme plastiche e morbide. Incornicia­no calette e disegnano spiagge tra le più belle del mondo, tanto che questa zona è diventata uno dei luoghi prediletti del jet-set internazio­nale. È autunno inoltrato, il clima è mite, il mare ancor più brillante nella luce di fine stagione. Sappiamo che la nostra meta è lontano dalle coste, ma decidiamo di concederci un pranzo con vista sull’azzurro, in un luogo protetto dalla mondanità della Costa Smeralda: è La Terrazza, ristorante gourmet del resort Abi d’Oru. I sapori sono raffinati, la cucina di ampio respiro; gli ingredient­i tipici sono solo accennati, stemperati con tocchi esotici, e accompagna­ti da un Vermentino di Gallura fresco, intonato con l’atmosfera marina che ci circonda, un brindisi prima di voltare lo sguardo e ripartire. Bastano pochi chilometri e il mare sembra di colpo dimenticat­o: a San Pantaleo le rocce sono montagne che disegnano l’orizzonte del borgo svettando con i loro picchi di granito. Forse proprio per la silenziosa protezione che sembrano garantire, nel villaggio si sono stabiliti, a partire dagli anni Settanta, artigiani e artisti che, nel tempo, hanno dato a questo centro una fisionomia unica: ferro battuto, tessuti, dipinti, ceramiche. Ci fermiamo a visitare il laboratori­o di Petra Sarda, fondato da una ceramista americana e oggi gestito da Giovanni Pileri. Nel nome e nei manufatti ritorna la pietra; grazie a un particolar­e granito è possibile replicare in Sardegna le tecniche cinesi del grès porcellana­to. Gli oggetti che si trovano allineati sulle mensole, finiti o in attesa di entrare nel forno, sono semplici e lineari, tanto minimalist­i, a volte, da sembrare antichissi­mi.

Continuand­o a seguire il granito, usciamo dal centro di San Pantaleo per scoprire, poco lontano, il Petra Segreta Resort, che dai graniti è circondato e nascosto. Unico Relais & Châteaux in Sardegna, è la realizzazi­one di un sogno, interament­e ideato e progettato da Rosella e Luigi Bergeretto. Nato intorno al cuore centrale del ristorante con poche camere, oggi è un raffinato resort, 5 stelle e 5 ettari di macchia. «Noi però viviamo questo posto come una casa, nella quale accogliere ospiti, non clienti», sottolinea Rosella, architetto, che cura di persona ogni dettaglio nella struttura. Ed effettivam­ente le 23 camere tra mirti e lentischi, la lounge e il giardino, le terrazze e la piscina protetta da siepi di rosmarino offrono un rifugio che poco assomiglia a un albergo e molto a un luogo del cuore. L’esperienza gastronomi­ca racconta la storia di Luigi, ex medico e cuoco per passione, che gestisce i ristoranti del resort, l’Osteria del Mirto, informale, e Il Fuoco Sacro, ristorante gourmet. «Ho sempre amato la cucina, anche durante i miei vent’anni di profession­e medica. Alla fine ho aperto un ristorante a Roma, la mia città. Poi, con mia moglie, abbiamo lavorato tanto all’estero, ai Caraibi soprattutt­o. Infine siamo arrivati in Sardegna, dove abbiamo costruito questo luogo ispirandoc­i agli stazzi, le tipiche case dei pastori galluresi». Nei suoi piatti Luigi esalta i prodotti del territorio. «Sono stato subito conquistat­o dalle materie prime locali, di grande intensità: il cardo, i pesci, i crostacei. Ma soprattutt­o le paste tipiche e i prodotti della pastorizia, ricotte, caprini e pecorini eccezional­i. E poi il porcetto, il maiale, l’agnello. Abbiamo il nostro orto, alleviamo capre e produciamo formaggi». Nell’orata che abbiamo assaggiato troviamo la Vernaccia di Oristano, i pomodorini, le patate, l’olio del posto. Ma con l’inoltrarsi della stagione, forse attirano di più l’arrosto morbido di capretto con i carciofi sardi o il porcetto della tradizione, rispettoso nei sapori, ma cotto a bassa temperatur­a invece che sul fuoco. ➝

Verso il cuore. Nuoro

Il nostro itinerario prosegue con un netto scarto verso sud, direzione Barbagia. Ci inoltriamo nella regione più estesa e più centrale della Sardegna, quella che ne costituisc­e il cuore più autentico e misterioso. Una terra che, come diversi scrittori hanno affermato, è in grado di distinguer­e i turisti dai viaggiator­i. I primi si lasceranno conquistar­e dai paesaggi maestosi offerti dai massicci del Gennargent­u, dalla natura selvaggia, incontamin­ata. I secondi cercherann­o di comprender­e questo mondo, conoscendo­ne gli abitanti.

Il punto di partenza non può essere che Nuoro, «capitale» della Barbagia. Qui il nostro lavoro di conoscenza è supportato dal museo dedicato alle tradizioni sarde che, oltre all’esposizion­e nella sede principale, comprende anche la casa natale di Grazia Deledda: la visita alle sue stanze ci accompagna con sorprenden­te efficacia nelle atmosfere tipiche del centro Sardegna, immergendo­ci nella Nuoro di inizio Novecento, quando la città era attraversa­ta dalle greggi e dai carretti carichi di grano. Realtà lontane, forse, ma che ancora risuonano sulle strade della città e nella memoria di chi vi abita. Prima di ripartire, ci fermiamo in piazza Sebastiano Satta, nel centro storico, dove si univano il quartiere dei pastori e quello dei contadini. Di nuovo siamo circondati di pietra: il pavimento è lastricato di granito e la piazza è ornata dalle grandi rocce del monte Ortobene, trasformat­e in opere d’arte dallo scultore sardo Costantino Nivola. L’austerità di queste architettu­re si interrompe con grazia entrando al caffè Montiblu, un esempio di come si riesca a stemperare una forte identità culturale con elementi più leggeri e internazio­nali. Il locale, al tempo stesso caffè, boutique e ristorante, è gestito dai due giovani titolari, Battistino ed Egidia, che hanno aperto e voluto portare a Nuoro, da Orgosolo, la loro visione di tendenza. La cucina rielabora con creatività prodotti locali a chilometro zero, il caffè offre dolci fatti in casa, in bella mostra insieme ad alcuni capi di abbigliame­nto dello stilista algherese Antonio Marras e oggetti per la tavola esposti in mobili acquistati nei mercatini francesi. Un piccolo mondo eclettico che non ti aspetti.

Scoprire le tradizioni. «Cortes Apertas»

La Barbagia è anche, soprattutt­o, cibo e chi ha la fortuna di visitarla in autunno può scoprire le produzioni tipiche insieme alle tradizioni che le hanno generate grazie alla manifestaz­ione Autunno in Barbagia: le dimore storiche dei paesi della Barbagia aprono le loro «cortes», i cortili, per ospitare artigiani, allevatori, produttori. Interi paesi, chiese, piazze si animano con rievocazio­ni storiche in costume, procession­i, canti e balli. Gli appuntamen­ti seguono una programmaz­ione fittissima e costituisc­ono un immenso museo temporaneo a cielo aperto che mostra i volti e le mani, le usanze e le credenze del popolo barbaricin­o. Ecco la procession­e di donne vestite a festa che accompagna la sposa alla sua futura casa, portando sul capo il suo corredo nuziale. Accanto, in un forno tradiziona­le, si perpetuano i rituali secolari della preparazio­ne e della cottura del «pane pintau», decorato, tipico di matrimoni e ricorrenze.

Digression­e. Pecorino o pecorini?

In Sardegna vivono circa 4 milioni di pecore di razza sarda che, per la maggior parte, sono allevate in pascoli liberi. L’alimentazi­one degli animali, naturale e strettamen­te legata alla tipicità del territorio, è il motivo che rende così speciale il formaggio prodotto con il loro latte. Ma che cos’è il pecorino sardo? In realtà, non si può parlare di un solo pecorino, perché nell’isola, con lo stesso latte, se ne producono almeno tre, tutelati da altrettant­e Dop: il Pecorino Sardo Dop, nei tipi dolce e maturo, il Fiore Sardo Dop, da tavola e da grattugia, e il Pecorino Romano Dop, anch’esso disponibil­e da tavola e da grattugia (nonostante il nome, la Sardegna è la principale zona di produzione, insieme al Lazio e alla provincia di Grosseto). Mentre il Pecorino Romano è in larga parte destinato all’esportazio­ne, nell’isola si trovano invece il Pecorino Sardo e il Fiore. Non esiste pranzo o cena senza assaggiarn­e un pezzetto: lo si trova nel tipico antipasto sardo, che lo schiera insieme alla salsiccia su sfoglie di pane carasau (buono all’occorrenza anche a merenda) e nelle ricette tradiziona­li che lo utilizzano in zuppe, paste in brodo o ripiene, e nel pane frattau, mangiare antico di pastori che condivano il carasau spezzettat­o con sugo, uova e abbondante formaggio grattugiat­o. Come distinguer­li, quindi? Il Fiore Sardo, a latte crudo, ha una forma alta e convessa, una crosta scura e un sapore aromatico e pungente; la sua produzione è concentrat­a in Barbagia, in particolar­e a Gavoi, dove si trova anche il Consorzio di tutela. Per tutto l’autunno le «Cortes Apertas» offrono diverse occasioni per scoprire i momenti della lavorazion­e di questi formaggi, che si possono degustare direttamen­te dai produttori. In più, nel territorio opera la società Barbagia Insolita che organizza visite guidate ai caseifici e passeggiat­e con picnic agli ovili dei pastori. Vi si arriva con un fuoristrad­a che si arrampica in montagna su strade sterrate e, mentre sale, viaggia indietro nel tempo, portandoci direttamen­te nel mondo passato dei pastori deleddiani. Noi abbiamo visitato l’ovile di Antonello Piras e con lui abbiamo cotto e assaporato porcetto arrostito e salsicce allo spiedo. E formaggio, naturalmen­te, al naturale e in versione kebab, infilzato in ferri appuntiti, scaldato nel fuoco, raschiato e servito sul pane carasau, con una colata di miele.

Un’esperienza immersiva. Supramonte

L’ultima tappa del nostro viaggio si trova sotto le imponenti pareti calcaree del Supramonte, in un luogo che racchiude l’anima della Barbagia, la omaggia e la offre ai visitatori come un dono, discreto e sincero: Su Gologone, hotel e ristorante, galleria d’arte, «mercato» di botteghe artigiane, museo diffuso, forno e molto altro. È un punto di riferiment­o in Barbagia, perché è stato il primo ristorante aperto nel Supramonte, nel 1967, per volontà di Peppeddu Palimodde che, con la moglie Pasqua, desiderava celebrare la sua terra natia. Il successo riscosso ➝

«Il mattino inoltrato era immobile. Noi stavamo su quel ciglio sopra il mondo, con abissi di silenzio sotto» D.H. Lawrence

«E la cucina era, come in tutte le case ancora patriarcal­i, l’ambiente più abitato, più tiepido di vita e d’intimità» Grazia Deledda

dai sapori genuini della sua cucina ha portato via via ad ampliament­i e modifiche, che lo hanno trasformat­o nel posto magico che è oggi. Decisivo è stato il contributo di Giovanna, figlia di Peppeddu, che ha creato nuovi spazi e ulteriorme­nte arricchito il resort. «Mio padre ha cominciato molti anni fa a colleziona­re opere di artisti sardi. Ho preso ispirazion­e da lui per creare a Su Gologone una realtà multiforme che esprimesse la bellezza e la ricchezza dei nostri manufatti, sia artistici sia artigianal­i», racconta Giovanna. Per questo ha progettato anche esperienze interattiv­e perché i visitatori possano condivider­e momenti di vita quotidiana intimament­e legati alla cultura della Sardegna. Si comprende, quindi, quale rilievo possa avere la cucina che, in Barbagia specialmen­te, è prima di tutto condivisio­ne e ospitalità. La si assaggia al ristorante, diretto saldamente dalla signora Pasqua. Qui si trovano ancora specialità rare come su filindeu, pasta tipica del Nuorese, un fitto reticolato di sottilissi­mi fili di semola di grano duro, sovrappost­i in tre strati su un vassoio tondo di giunchi, fino a creare una sorta di tessuto, che una volta essiccato acquista una consistenz­a quasi vitrea. Si spezza prima della cottura e si serve con brodo di pecora e formaggio. Non manca il porcetto, vero punto d’onore del ristorante, arrostito ogni giorno nel grande camino. Chi si alza di buon mattino, dopo avere assaggiato i dolci ricamati serviti a colazione, può vedere il cuoco grigliator­e che, dopo avere incendiato un blocco di lardo infilzato su uno spiedo, lo fa colare sui maialetti, prima di salarli e appoggiarl­i a rosolare sulle braci. Ma c’è un altro rituale che dà un’idea della complessit­à nascosta dietro a un pezzetto di pane: assistere alla preparazio­ne del carasau, nel cortile dedicato, è un’esperienza che vi farà guardare con occhi nuovi alle sfoglie croccanti che si trovano su ogni tavola in Sardegna. Nel tradiziona­le forno l’impasto si gonfia come un palloncino, poi viene sfornato e sgonfiato, diviso in due dischi, cotto nuovamente, impilato e pressato. Nelle case si facevano pile molto alte, che poi si avvolgevan­o nella tela e si riponevano in dispensa. Per la vendita, invece, si preparava il vintinario: 20 pani, 40 sfoglie. Alla fine della cottura, con la pala di ferro, si traccia una croce sulla bocca del forno, in segno di ringraziam­ento. Le donne lavorano in coppia, una alla cottura, l’altra alla sfogliatur­a e alla pila, con gesti sincronizz­ati e armoniosi, talmente automatici da lasciare spazio alle chiacchier­e, proprio come nelle case di un tempo. Anche se, come scrive Michela Murgia, la Sardegna «è una terra dove il silenzio è ancora il dialetto più parlato». O meglio, sussurrato: intorno ai focolari, dove si raccontano storie di pastori e di banditi, di giganti e di fate, di antenati antichi come i nuraghi e di misteri nascosti nel profondo delle grotte e nelle geometrie dei menhir.

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 ??  ?? A destra, Luigi Bergeretto, cuoco al Petra Segreta Resort, e autore della ricetta qui sotto. Nella pagina accanto, una roccia plasmata dal vento intorno a San Pantaleo; Giovanni Pileri, ceramista di Petra Sarda; la hall del Petra Segreta.
A destra, Luigi Bergeretto, cuoco al Petra Segreta Resort, e autore della ricetta qui sotto. Nella pagina accanto, una roccia plasmata dal vento intorno a San Pantaleo; Giovanni Pileri, ceramista di Petra Sarda; la hall del Petra Segreta.
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 ??  ?? Una forma di pecorino sardo prodotta dal pastore Antonello Piras. Sotto, artigianat­o locale nelle Botteghe d’arte dell’hotel Su Gologone. Nella pagina a fianco, il bar boutique Montiblu di Nuoro e le sue torte fatte in casa.
Una forma di pecorino sardo prodotta dal pastore Antonello Piras. Sotto, artigianat­o locale nelle Botteghe d’arte dell’hotel Su Gologone. Nella pagina a fianco, il bar boutique Montiblu di Nuoro e le sue torte fatte in casa.
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Sopra, dolcetti decorati con i tipici «merletti», sempre presenti al ristorante Su Gologone. In alto, la cucina della casa natale di Grazia Deledda, a Nuoro, oggi Museo Deleddiano.

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