Artigiani in fabbrica
Il cioccolato è prodotto con macchinari industriali, che aiutano il lavoro manuale. Ma sono le degustatrici a dare il via a tutto
Primo: assaggiare Domori
Oggi ho realizzato un sogno condiviso da molti: sono entrata in una vera fabbrica di cioccolato. E non in una qualsiasi, ma in quella di Gianluca Franzoni che, qui a None, alle porte di Torino, nel 1997 ha fondato la Domori. Franzoni è stato il primo a riscoprire il cacao Criollo, antico e particolarmente pregiato, ricco di aromi. Tanto profumato quanto raro e delicato, al punto da essere soppiantato dal più resistente Forastero, che oggi rappresenta il 90 per cento della produzione mondiale. Il Criollo, lo 0,001 per cento, ha una qualità tale da consentire una trasformazione «a basso impatto»: temperature inferiori, tempi ridotti, limitate aggiunte di ingredienti, proprio perché non è necessario «correggere» asprezze naturali ed è importante, invece, preservare aromi e caratteristiche. Ciò è possibile solo con cacao fine: oltre al Criollo, il Trinitario, di diversa provenienza.
Dal frutto alla tavoletta
Roberta Giusto, coordinatrice della comunicazione, mi guida alla scoperta di questa trasformazione e mi conduce in un affascinante e profumato percorso, dall’arrivo dei sacchi di fave fino al confezionamento e al magazzino: conoscere per intero il processo di lavorazione è indispensabile per capire quanto sia fondamentale il ruolo del panel di assaggio nell’intero sistema. Dopo il lavoro nelle piantagioni – raccolta dei frutti del cacao (cabosse), taglio delle cabosse per ricavare le fave, fermentazione (fase cruciale per gli aromi) ed essiccazione – si arriva ai sacchi di juta che vedo nel magazzino Domori. La trasformazione comincia in fabbrica: le fave vengono pulite da batteri e corpi estranei, tostate e infine frantumate. La granella così ottenuta viene «pressata» in mulini a biglie, che la riducono allo stato fluido. In questo momento si aggiungono gli ingredienti necessari a trasformare il cacao in cioccolato: zucchero, ma anche nocciole, latte. È qui che si crea la ricetta del prodotto finito, il cioccolato. Si arriva quindi a un’altra fase cruciale, quella del temperaggio, che stabilizza i cristalli di zucchero ed evita
che il burro di cacao naturale (Domori non ne aggiunge) affiori in superficie. Infine, il cioccolato è colato negli stampi e modellato in tavolette (oppure in pastiglie, per i professionisti).
E il panel di assaggio? È composto da dipendenti interne che sono state formate come assaggiatrici e si riunisce ogni due settimane circa. Il suo ruolo è fondamentale, perché serve a giudicare la qualità della materia prima che i produttori inviano in campionatura. Il panel esamina innanzitutto le fave di cacao, verificando il livello di fermentazione. Quindi passa al cioccolato campione, creato in fabbrica con una piccola linea di macchinari dedicati. Nessuno strumento è in grado di replicare l’analisi multisensoriale eseguita dalle assaggiatrici. Il cioccolato si assaggia con tutti i sensi: con gli occhi si valuta il colore e l’aspetto, con le orecchie il cosiddetto «snap» quando si spezza, con il naso l’intensità dei profumi, con la bocca, infine, l’aromaticità e la consistenza. Ogni valutazione coglie mille sfumature, retrogusti, pregi e difetti che le assaggiatrici soppesano guidate da un’apposita scheda, sulla quale segnano i «voti». La promozione o la bocciatura è il risultato di un confronto tra i giudici interni, che poi inviano le schede al fondatore Gianluca Franzoni, per l’ultima approvazione. Ecco perché l’assaggio è, in realtà, ciò che dà il via a tutto: solo se il panel dice sì, quelle fave si possono acquistare e quel cioccolato può entrare in produzione.