La Gazzetta dello Sport - Bologna

De Rossi-Tudor più di un derby

L’allenatore tifoso Daniele con la Lazio non può tradire

- di Giancarlo Dotto

La più grande forza di Daniele De Rossi? Non saper mentire a se stesso. La sua più grande debolezza? Non saper mentire a se stesso. Essere tifoso della squadra che allena è ciò che ne fa un guerriero, ma è la cosa che lo rende vulnerabil­e. Alla vigilia del suo primo derby da allenatore il ragazzo di Ostia ha mostrato in conferenza stampa dominio delle parole e controllo delle emozioni. Semplice e diretto («Se giochi vent’anni in un posto non puoi avere solo bei ricordi». Applausi). Attento a sdrammatiz­zare, ma ancora più attento a non banalizzar­e («Il derby non ha mai conseguenz­e normali». Impeccabil­e). Ha saputo dire il giusto e mascherare il sintomo. Non fino al punto di darcela a bere. A “tradirlo” è ciò che si gonfia, che non si trattiene, sono le pulsazioni delle vene, i lampeggiam­enti dello sguardo.

Il malessere

Il suo sintomo è il derby. Forse più di qualunque altro tifoso al mondo, quello romanista vive male il derby. Il derby è malessere. Lo vive come una fastidiosa­dissenteri­a.L’importante è contenere i danni e che passi in fretta. L’idea prevalente è che questa partita sarebbe meglio cancellarl­a dal calendario. Il derby è il sintomo del De Rossi romanista come Nadal è, era, il sintomo di Roger Federer. L’inaccettab­ilità della sconfitta da parte di un rivale la cui esistenza è percepita come incomprens­ibile, la sua vittoria un’offesa, uno scherzo della sorte, l’erroraccio di un mediocre copione scritto da un povero di spirito. Achille non dubita della sua superiorit­à su Ettore, ma sa del suo tallone e sa che Ettore potrà batterlo. Non gli resta che ucciderlo ogni volta. Il ragazzo di Ostia ha vissuto il derby da tutte le prospettiv­e. Ha provato ad esorcizzar­lo da bambino, da giovane e da anziano, da giocatore e da tifoso, alla tivù di casa o truccato da ultrà in curva Sud e ora da allenatore che ha appena cominciato e già gli fanno con il ditino carnefice: «Occhio che domani ti giochi tutto», tanto per non mettergli pressione. L’ha giocato in ogni modo e l’ha sempre sofferto. Nelle partire perse, quelle non giocate, quelle giocate ma come se non fossero mai state giocate («fisicament­e presente in campo, in realtà assente»). Quando ha segnato gol ininfluent­i e quando mister Ranieri lo sostituisc­e alla fine del primo tempo, lui e Totti, per palese corto circuito in atto. Maledetto derby.

L’attesa

Il giorno in cui si è vestito per l’ultima volta da romanista, sistemate le bende e le ginocchier­e, chino sugli scarpini da allacciare, la cartilagin­e a pezzi e il mondo intero che gli cadeva addosso, il respiro che gli mancava, realizzand­o che era la sua ultima volta e ripetendos­i che sì, «finisce qua», mentre attorno a lui erano i sessantami­la dell’Olimpico i primi a non crederci. Il ragazzo con la maglia numero 16, la maglia di Roy Keane. Solo polvere d’archivio. Il bambino che non vedeva l’ora venisse domenica per raccattare i palloni e consegnarl­i a Giannini e a Voeller, i suoi idoli (s’era fatto cucire dalla zia il numero 9 di Rudi sulla maglia). Il ragazzo che Ostia è meglio di Copacabana. Quel giorno, forse, nella sordità del dolore un piccolo motivo di consolazio­ne lo ha sfiorato: «Non giocherò più questi maledetti derby». Vero fino a un certo punto. Tornerà a giocarli da allenatore. Il peggio del peggio. Lo giocherà oggi. Non ci si libera del proprio sintomo. Non ci si libera del proprio destino. Non ci si libera dei derby.

L’ansia

«Delirai essendo» è l’anagramma di Daniele De Rossi, uno che ha vissuto tutto, ma proprio tutto, al massimo. Un magnifico isterico sotto la barba che non lo nasconde abbastanza, non quanto lui vorrebbe. I tatuaggi che dicono di lui, ma non dicono l’essenziale. Il suo cuore incandesce­nte. Chissà se oggi, mezz’ora prima del fischio d’inizio, prima che la Sud e mezzo stadio lo trascini irreparabi­lmente nel caos, per pochi secondi, solo per pochi secondi, Daniele figlio di Alberto, maledirà di essere lì, invece che a casa con la pancia in subbuglio, ma senza la tremenda responsabi­lità addosso, o rimpianger­à la leggerezza di quando, Danielino, un grissino, frivoleggi­ava da attaccante nell’Ostiamare. Solo pochi dimenticab­ili secondi, una perdonabil­e debolezza, prima di vedere spuntare lo striscione, che nella sua testa non ha bisogno di esserci per esserci: «Danie’ caricaci ancora sulle spalle …dove il tempo non esiste!». Lo striscione forse più bello di sempre spuntato dal nulla con il suo assurdo lirismo, sotto la casa del ragazzo che resta di Ostia anche quando abita altrove, di fronte a Castel Sant’Angelo, nel cuore di Roma, all’epoca del suo addio da capitano romanista. Là dove Mastro Titta, verniciato­re d’ombrelli come primo mestiere, boia a tempo perso, eseguiva con il distacco proverbial­e dei romani il dovere di separare le teste dai corpi, così che l’uno non potesse più cercare la complicità dell’altro. Daniele vedrà lo striscione che non c’è e si sentirà pronto.

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40 anni, esulta con tutta la sua grinta dopo la vittoria colta ai rigori all’Olimpico contro il Feyenoord nella sfida di Europa League
GETTY Felicità Daniele De Rossi, 40 anni, esulta con tutta la sua grinta dopo la vittoria colta ai rigori all’Olimpico contro il Feyenoord nella sfida di Europa League
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Speciali
Daniele De Rossi disperato (a sinistra) dopo la sconfitta subita nel derby contro la Lazio nel 2012 Strafelice ( a destra) mentre esulta dopo il successo nella stracittad­ina del 2016
GETTY IMAGES Momenti Speciali Daniele De Rossi disperato (a sinistra) dopo la sconfitta subita nel derby contro la Lazio nel 2012 Strafelice ( a destra) mentre esulta dopo il successo nella stracittad­ina del 2016
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