La Gazzetta dello Sport - Romana
ROMA: TIRA MENO, VERTICALIZZA DI PIÙ
Rispetto a Mourinho (12,55 tiri in media a partita) la Roma di De Rossi calcia di meno in porta (10,42) ma con più efficacia. E in più verticalizza maggiormente (151,86 a partita contro 149,2 di Mou) ltro che famiglia, questa sta diventando un’orgia di anime e corpi. Daniele nella fossa dei suoi leoni a sbranarsi di baci e abbracci. Una settimana fa l’afflato on air, lui che afferra l’efebico Paulo in volo, come fosse un bambino caduto dal quinto piano, senza nemmeno i guantoni da catcher, e i due che si ritrovano in un terzo tempo dell’amore, così bello e sinfonico oltre che sintonico che se lo provi cento volte in un set non ce la farai mai. L’altro ieri, a Monza, si replica più o meno con tutti, con la sciccheria dell’elogio al Turco. De Rossi è molto più che un bravo allenatore, De Rossi è un uomo ispirato.
ALa sovrapposizione
De Rossi, il suo primo giorno alla Roma: «Sorrido perché vedo facce alle quali sono affezionato e perché stare qui è un sogno. Se è il momento giusto per tornare alla Roma? Era il momento giusto per rifiutarla? Ci sono uomini che si rifiutano e uomini che si buttano. Io mi butto, me la giocherò fino alla morte questa carta…».
Il loro calcio Protetti i due da un senso dell’umorismo sottile. Assai debole invece in menti pure eccelse. Lo stesso Mourinho, ma anche Guardiola e Conte, per non dire Bielsa, altro genio, ma a un passo dalla sociofobia. Tutti troppo compresi nel proprio canone totemico, al contrario di Daniele e Jurgen, loro sì gioiosamente dispersi nella polvere del mondo. Due tecnici heavy metal, votati a un calcio che ama la percussione e l’aggresdesco,
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sione. Pieni di tatuaggi, o diventano loro stessi tatuaggi. Al netto del magistero ancora evidente di Luis Enrique, il destino calcistico di De Rossi sarà sempre più nella sintesi di Luciano Spalletti, un gioco che trama fitto ma solo allo scopo di strappare nelle sulfuree scorciatoie dell’invenzione. Uno showman naturale il tecon una stabilità emotiva che non può ancora avere il giovane De Rossi, che ha stupito però per la capacità di combinare sentimento e ragione. Nel non farsi inghiottire dai propri errori, nel riconoscerli e rimediare con sapienza chirurgica (vedi Salerno), senza guardare in faccia nessuno.
L’io e il noi A spiegare la cesura così radicale tra il Mou che è stato e il Daniele che già è e sempre più sarà, lo stravolgimento del concetto di leadership. Il nuovo in questo caso non avanza: rompe, travolge, selvaggio, sotto l’apparente garbo delle maniere. Siamo passati in un baleno dal monoteismo cupo da vecchio testamento dell’uomo di Setubal, il carisma del messia che include per quanto esclude, alla predicazione avvolgente e solidale del ragazzo di Ostia. Dalla parola come dogma e fascinazione del «sono io» alla parola come scambio e comunione del «siamo noi». Senza mai perdere un filo di autorità. Anche qui, nel carisma che sa essere inclusivo, l’affinità tra De Rossi e Klopp è totale.
La dialettica Non li sanno solo abbracciare. Sanno parlare ai loro calciatori. Sanno come farli «giocare», nel senso di farli gioire. Jurgen Klopp, il Santo dell’Anfield. Un amabile istrione. Prende Salah, il giorno che arriva a Liverpool, timido e spaesato come una gazzella inseguita dal leone. Se lo porta a casa e lo abbraccia che quasi lo stritola: «Momo, tu ora sei uno di noi, ci farai felice, ma a una condizione, tu da questi venti metri davanti non schiodi, tu mi servi da killer con il tuo piedino da violinista». E Salah da gazzella diventa leone. De Rossi ha preso i negletti e i diseredati e gli ha restituito dignità. Quelli mortificati dall’Illuminato, ma anche i miliziani addetti alla Gloria del Supremo, pedine di un ordine che li eccedeva. Pellegrini, Spinazzola, El Shaarawy, Smalling, Zalewski, Svilar. Tutti gli altri, a cominciare da Dybala, Lukaku e Mancini, non hanno avuto neanche il tempo di sentirsi orfani.