La Gazzetta dello Sport - Romana

La montagna no-limits è perfezione e silenzio

Parte oggi la 21a edizione della Millet Tour du Rutor Extreme. Ce la racconta il direttore tecnico, un mago degli 8000

- Di Serena Gentile

Sveglia all’alba, si parte. Tre giorni di gare, 7000 metri di dislivello positivo totali, 25 cambi di assetto, 66 km di sviluppo tra salite e discese in free ride, 6 km di creste con passaggi oltre i 3000 metri, insomma una gara tosta, intensa, non per tutti. La 21esima Millet Tour du Rutor Extreme parte oggi con la grande traversata da La Thuile a Valgrisenc­he, un “garone” con bel 2400 m di dislivello in salita. Al via 174 squadre (22 femminili) provenient­i da 15 Paesi che domani si cimenteran­no “into the wild” tra salite e discese, canalini e tratti alpinistic­i in cresta tra Valgrisenc­he e Alpe Vielle. Con il gran finale, domenica, nella classica tappa di Planaval, uno spettacola­re anello intorno allo Chateau-Blanc. Insomma, tre giorni di grande scialpinis­mo, alta quota, agonismo: unica tappa italiana 2024 della Grande Course e prova finale della Coppa Italia Fisi. Ad Arvier si sta lavorando da mesi: sono 150 i volontari che si dedicano ogni anno a questo evento, bambini delle scuole compresi. A supporto del comitato organizzat­ore e del team di tracciator­i, sotto la direzione tecnica delle guida alpina esperta Marco Camandona, uno da 12 Ottomila su 14. Che da giorni studia la stratigraf­ia dei pendii, le condizioni meteo e quelle della neve, per preparare al meglio il percorso, che comunque è variabile, come tutto in montagna. «Un’avventura anche per noi organizzat­ori. Se per gli atleti i metri di dislivello sono 7000, i tracciator­i ne fanno 15 mila... In montagna tutto cambia velocement­e e bisogna essere pronti a trovare un’altra via, la più sicura sempre». Lui lo sa bene, e ti spiega anche che la montagna non si conquista, sebbene abbia scalato le più alte del mondo e senza ossigeno.

▶P€rché?

«Quando arrivi in cima hai fatto solo il 50% dello sforzo, c’è la discesa da affrontare e può essere più complicata della salita. Puoi essere soddisfatt­o quando sei al campo base, o meglio a casa».

▶ C’è stata una volta in cui ha avuto paura di non farcela?

«In montagna la paura devi controllar­la perché porta il panico e il panico lì è inconcepib­ile. È più facile morire che tornare a casa. Spesso ti trovi in situazioni o pareti che sono sopra le tue possibilit­à e dove non arriva il corpo, deve sopperire la testa: la mente può farti fare cose che il fisico non ti permette. Sì, mi sono trovato davanti a difficoltà importanti perché le capacità fisiche erano limitate e l’esperienza non c’era ancora. Così ho lasciato 7 dita delle mani sul K2 e un amico sull’Annapurna. Perdere Christian (Kuntner) è stato terribile. La salita d’altri tempi sul K2 (oggi sugli 8000 whatsappi, allora sparivi per 45 giorni), è stato uno dei momenti più drammatici e insieme belli della mia vita. Era il 2000 ed eravamo in tre in tutta la montagna: siamo arrivati in vetta alle 6 e mezza di sera, tardi, il sole che tramonta riflette un cono perfetto, la montagna come la disegnano i bambini: magia. Ma la felicità di essere in cima era grande quanto la difficoltà di affrontare la notte. Eravamo stanchi, la discesa dura, in quei casi il minimo errore può essere fatale».

▶Non senti più neanche il freddo probabilme­nte?

«Esatto. La priorità in quel momento è scendere, non senti più nulla, sei adrenalina, abbandoni il superfluo: infatti mi si sono congelato le dita e me ne sono accorto solo al campo base. Eravamo fuori da 4 giorni, senza mangiare, poco acclimatat­i, ricordo ancora le ginocchia piegate».

▶ La tenda mensa è al campo base: che cosa si mangia?

«Io non parto se non ho caffè e biscotti. Poi con un cargo spediamo tortellini, il dado per fare la minestra, prosciutto, sugo, stinchi e zamponi sottovuoto: sull’Everest li barattavam­o con l’acqua gasata. Quella del ghiacciaio devi bollirla o ti viene la dissenteri­a: ci facciamo il tè ma dopo un po’ stufa. E poi un buon quantitati­vo di antibiotic­i, anche se a una certa quota non fanno effetto».

▶ Aiuto. C’è la tenda doccia?

«Sì, ma l’acqua è fredda, la usiamo poco».

▶Gli 8000 (che poi sono anche 8848 sull’Everest) sono medaglie, ma sono tutte uguali?

«Sì e no. L’Annapurna forse supera le altre, perché ci ho provato 3 volte in 4 anni: la prima è arrivato il brutto tempo a 400 metri dalla vetta e siamo tornati giù. La seconda ci è arrivato addosso un seracco che ha colpito Christian allo stomaco: è stato terribile, ma devi reagire. In montagna parti in squadra, decidi insieme come e quando salire, ma poi sei solo: è brutto da dire, ma devi aiutare prima te stesso. Ci ho riprovato ancora l’anno dopo, e al terzo giro, nel 2006, sono andato in vetta. Non sono i record che mi interessan­o, ma le emozioni che mi dà pormi e superare dei limiti».

▶ Come si prepara una spedizione?

«Con tanto allenament­o. E le foto di chi ci è già stato. Oggi con i droni: nella via nuova al Nanga Parbat, l’ho alzato sino a 7 mila metri. E fotografat­o le vie più interessan­ti. Oggi ti aiutano anche il meteo e la traccia sull’orologio. Ma resta un’avventura e serve capire dov’è la propria soglia, che ogni volta è diversa: saper girare i tacchi e tornare indietro. Non puoi mai dire “devo provarci”».

▶ Nei momenti critici cosa ti aiuta?

«Giochi con la vita, la forza è il pensiero di tornare a casa».

▶ Si parla con la montagna?

«Oh mon Dieu, no. La montagna è silenzio. Dai 7600 in poi entri in un altro mondo, spegni tutto, sei al limite. Non puoi parlare neanche con i compagni».

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 ?? ?? Tuta e cuore Sino ai 7000 m Camandona, atleta Millet, usa lo zaino: «Pesa circa 15 chili: ho una Coca Cola, 4 gel, una piccozza, un cordino da 15 m, la frontale e una macchina fotografic­a».
Poi, per la vetta, la tuta con tante tasche: la Trilogy Mxp Down Suit M di Millet. A sinistra un campo a 7000 m per l’acclimatam­ento. Marco ha fondato in Nepal l’orfanotrof­io Sanonai: «Lì le famiglie hanno 6/7 bambini: i primi mangiano, i secondi vanno a scuola, gli altri si arrangiano»
Tuta e cuore Sino ai 7000 m Camandona, atleta Millet, usa lo zaino: «Pesa circa 15 chili: ho una Coca Cola, 4 gel, una piccozza, un cordino da 15 m, la frontale e una macchina fotografic­a». Poi, per la vetta, la tuta con tante tasche: la Trilogy Mxp Down Suit M di Millet. A sinistra un campo a 7000 m per l’acclimatam­ento. Marco ha fondato in Nepal l’orfanotrof­io Sanonai: «Lì le famiglie hanno 6/7 bambini: i primi mangiano, i secondi vanno a scuola, gli altri si arrangiano»

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