LA SUA PARTITA
puffi non abitano a Gomorra. Per questo l’unico azzurro di Lorenzo Insigne è il cielo che bagna Napoli. E così, in tempi di «fiction» di successo, di male apparentemente irredimibile, l’attaccante diviene all’improvviso il contraltare immaginario della famiglia Savastano, la storia da raccontare perché può prevedere il lieto fine. Ce ne sarebbe davvero bisogno stavolta, e proprio per questo il tifo azzurro – soverchiato dall’inizio alla fine dalla marea verde irlandese – si risveglia in un solo momento, quando l’attaccante del Napoli entra, dribbla un paio di giocatori e colpisce un palo che sa di ringhio al potere. «Insigne, Insigne», canta la gente per qualche secondo. Quasi un appello che dice a Conte: l’Italia ha bisogno non solo di soldati, ma anche di qualità. Stavolta invece c’è l’impressione di andare a una festa senza essere passati per casa. Ci si ravvia i capelli con le mani, si aggiusta il nodo della cravatta, ma se la serata è di quelle eleganti, si finisce per fare brutta figura. Che l’Italia 2.0 non sia l’evoluzione della specie lo potevamo immaginare, però non che la partita contro l’Irlanda ci riporti indietro nel tempo, ai timori della vigilia dell’Europeo, ai rischi insiti nella cifra tecnica di un gruppo apparentemente troppo privo di stelle per sognare il paradiso.
RUGGINI IN ARCHIVIO A questo punto la partita contro la Spagna sembra quasi un paradosso. La squadra che il suo marchio di fabbrica nella qualità — così tanta che a volte sfocia nella leziosità — deve vidimare il nostro passaporto per l’Europa dei grandi. Certo, sappiamo già che al «pronti, via» del match di Parigi a Insigne toccherà di nuovo la panchina, ma chissà che stavolta non abbia dimostrato a Conte di saper scalare gerarchie. In fondo, le incomprensioni dell’autunno SUL TERRENO DI GIOCO SULLA PRESTAZIONE