DELEGITTIMARE SARRI MA PERCHE’ ADESSO?
N on puoi pensare di uscire indenne dal Bernabeu, contro questo Real, senza fare la partita perfetta, il capolavoro della vita. Insigne, dopo pochi minuti trova la porta con un colpo di genio. La sua è una scorciatoia coraggiosa che indica una strada possibile, forse l’unica per ribaltare i rapporti di forza. Il Real di Zizou la chiude e il risultato finale è la normalità. Forse la predica lasciata fare a Maradona, negli spogliatoi, poco prima che i giocatori entrassero in campo, può essere stato un boomerang per Hamsik e compagni. Può aver scalfito il peso abitualmente assoluto del verbo di Maurizio Sarri (e le parole di De Laurentiis nel dopo match dilatano il dubbio e allargano il solco). Diego è Diego, ma Sarri è il valore aggiunto capace – finora – di moltiplicare con il suo gioco la somma delle qualità individuali della squadra. Ha senso un «processo» pubblico prima del ritorno? Certo che no, anche se stavolta il Napoli non ha giocato come sa. Lo strappo va ricucito.
Per tutto il primo tempo i blancos di Zidane hanno fatto la partita pressando alto e in modo organizzato: ritmo molto intenso, almeno quattro fonti di gioco (Marcelo, Kroos, Modric, Benzema) per lanciare Cristiano Ronaldo. CR7 è al 50 per cento della condizione, fosse stato bene saremo qui a parlare di qualcos’altro. Non dimentichiamo che Higuain a Madrid era una riserva, e invece a Napoli valeva come San Gennaro. Il 3-1 è una normalità che non chiude il conto, ma al San Paolo serve un’impresa storica per rovesciare la situazione. Il Napoli deve giocarsela in modo più aggressivo e coraggioso, trovare altre scorciatoie tipo quella di Insigne. La qualità e la condizione fisica fanno la differenza. Questa è una Champions che spacca. Il 5-1 del Bayern di Carlo Ancelotti sull’Arsenal toglie virtualmente di mezzo i Gunners dall’Europa. Probabilmente questo torneo ci metterà davanti a altre sorprese.
Intanto, da martedì notte, il ParisSt. Germain è un iceberg che galleggia sull’orizzonte delle big d’Europa, Juve compresa. Avevamo previsto che Verratti, Cavani e compagni potessero fare male al Barça, visto il lavoro fatto in questi mesi da Unai Emery. Avevamo anche ricordato – nella vigilia del match di Parigi – che il Barcellona ha smesso di dominare le partite, che non ha più il gioco rotondo di un tempo e si muove in un mare di dubbi quando viene messo sotto pressione. Non erano previste le proporzioni del crollo. Personalmente, l’impatto del Parco dei Principi mi ha fatto rivivere quello di Nino Benvenuti contro Carlos Monzon. È roba premoderna, parliamo di quasi mezzo secolo fa: ero un ragazzino, ma me la ricordo bene quella vertigine mossa dallo stupore di trovarsi di fronte a una realtà capovolta. Benvenuti difendeva il titolo di campione del mondo, Monzon era il numero sei degli sfidanti. Ma sul ring l’argentino era un martello, troppo più forte. Nella storia del Barcellona, il 4-0 suggerisce tradizionalmente la fine di un ciclo. Ad Atene, nel 1994 contro il Milan, era arrivato al capolinea il Dream Team di Cruijff; nel 2013 a Monaco, col Bayern, si era conclusa l’epoca «guardiolista» anche se in panca c’era Tito Villanova. Stavolta il Barça non ha indovinato gli acquisti, dalla cantera non escono più fenomeni, ha perso il suo stile. A meno di un’inverosimile remontada, l’8 marzo al Camp Nou, è difficile che Luis Enrique possa continuare oltre giugno. Sono dieci anni che il Barcellona non esce dalla Champions agli ottavi. Per forza qualcosa dovrà succedere.