« MIO FRATELLO Che Guevara » «MESSI COME ERNESTO UN BRAND DA VENDERE»
Baffi, occhiali tondi e un sorriso che ricorda qualcuno. Juan Martin Guevara è un simpatico signore argentino di 74 anni, 8 passati in cella da prigioniero politico. Colpa del legame eterno con Ernesto, il fratellone più grande di 15 anni che lo accompagnava allo stadio prima di provare a cambiare il mondo. Sì, lui, Ernesto Che Guevara, rivoluzionario, guerrigliero, icona controversa. Eppure, solo un uomo per Juan Martin che, dopo quasi 50 anni di silenzio, ha deciso di spendere la vita per custodire la memoria del fratello. È l’ospite d’onore della rassegna cinematografica «Al cuore dei conflitti» di Bergamo. Stasera in città i rivoluzionari del Gasp sfideranno l’autorità bianconera, non un evento banale per un innamorato del fùtbol come lui.
Guevara, cosa significa essere il fratello minore del Che?
«Prima sono il fratello di Ernestito. Il comandante Che arriva dopo e, in quel momento, ti accorgi che è diventato qualcosa di più: non solo un fratello di sangue, ma un compagno di idee. Per me le due cose sono unite. Difendo il suo pensiero e attacco se serve: voi parlate di sport, una cosa meravigliosa ma ormai un business poco rispettoso dell’etica e della storia. Non è diverso da chi vende le magliette del Che. Per intenderci, è quella cosa che porta il nostro Lavezzi in Cina».
Suo fratello aveva una passione viscerale per il gioco e la competizione: come ha fatto a conciliarla con l’asma?
«Forza di volontà, senso della sfida. Giocava male a calcio, ma queste doti sin da piccolo gli fecero scegliere il rugby: è uno sport più egualitario, sociale, con una forte idea di gruppo. Anche io ho giocato a rugby ed ero più bravo di lui. Da nostro padre Ernesto ereditò la passione per gli scacchi, che lo aiutarono nella lucidità di analisi. A Cuba lui stesso sfidò dei maestri sovietici».
Stupisce di più vederlo in foto d’epoca giocare con Fidel a golf.
«Non fu una vera passione: ad Alta Gracia vivevamo accanto a un campo di golf e imparo lì. Ernesto è stato anche un ottimo nuotatore: ha attraversato il Rio delle Amazzoni, sempre per la voglia di portare a compimento una missione. Quando si mise in testa di scalare il vulcano Popocatepetl, alla fine riuscì a piantare in cima una bandiera argentina».
Le biografie parlano di un Che allenatore improvvisato a Leticia, in Colombia, con una squadra di campesinos e soldati.
«Da ragazzo viaggiava per il Sud America con il suo amico Alberto Granado: non erano grandi tecnici, ma l’essere argentini era garanzia di competenza. Così riuscirono, divertendosi, a raggranellare qualche pesos. Erano presenti a un’amichevole MillonariosReal, ma non posso dire se davvero incontrò mai Di Stefano».
Rosario la sua città di nascita, Rosario la città del calcio.
«Tifava il Rosario Central, lo vedevo con lui a Baires, dove vivevamo. So che a Rosario è nato Messi ma nessuno dei due è un vero rosarino: Leo è parti- to presto per l’Europa, Ernesto è nato in città solo per caso».
Messi vive da anni nel paragone con Maradona, uno che ha il Che tatuato sulla pelle. Diego è un calciatore rivoluzionario?
«Assolutamente no, solo un grande calciatore. E anche lui un brand che vende. Questa commercializzazione funziona anche con mio fratello. Ma perché la gente vuole “comprare” il Che? Dopo l’omicidio del 1967, mio fratello Roberto andò in Bolivia a riconoscerlo e scoprì che il corpo non c’era: gli avevano tagliato le mani, l’avevano sotterrato per non dare un referente ai giovani. Non è andata così perché, in qualche modo, l’icona vende. A noi il compito di riempirla di contenuto, di umanità».
Parla di diseguaglianza: lo sport può aiutare a combatterle?
« Certamente, ci insegna un’etica da seguire dietro a una bandiera. Per questo andrebbe protetto. In Argentina c’erano tanti club dei barrios, la crisi li ha messi in ginocchio e non sono stati aiutati dallo Stato, nonostante avessero una funzione sociale, educativa, culturale. Ormai nei piccoli si mette l’idea che l’obiettivo è arrivare al Boca e al River, poi in Europa, poi magari in Cina. Questa società li spinge a pensare così. Il Che ci ha insegnato altro, a non barattare idee e sogni per denaro o potere».
E allora cosa possono imparare i ragazzini dal suo Ernestito?
«La libertà, quella vera, dovunque porti, ma serve educare anche i genitori. Che i giovani abbandonino le proprie certezze per inseguire una idea, un aquilone o anche solo una palla per strada».
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