La Gazzetta dello Sport

GOL REGOLARE O NO? SE PROTESTI TANTO...

- di ROBERTO BECCANTINI I

E’molto interessan­te il caso sollevato da Predrag Mijatovic, al di là della finale di Champions che il suo gol decise (Real-Juventus 1-0 del 20 maggio 1998) e al di qua della rivincita che si profila il 3 giugno a Cardiff. Il gol era in fuorigioco. Capita, e comunque non è questo il punto. Il punto è come l’attaccante montenegri­no continua a giustifica­rne la regolarità. L’ha spiegato «più di mille volte». L’ultima, a Radio Catalunya: «Ho sempre detto che non era fuorigioco per la semplice ragione che i giocatori della Juventus non protestaro­no, non uno, e sappiamo benissimo che in queste occasioni tutti i calciatori, ancor più se italiani, protestere­bbero. E non fu così».

Sembra un esercizio di sgangherat­o equilibris­mo, ma non lo è. Chi scrive, quella sera era inviato de «La Stampa» ad Amsterdam. Che Mijatovic fosse oltre lo seppe, per telefono, dalla redazione. In tribuna c’era, fra gli altri, Paolo Casarin, ex designator­e di Serie A e Serie B (1990-1997). Non lo notò nemmeno lui. Fu la tv a svelare l’arcano. E non lo notò, stiamo arrivando al nocciolo, anche perché «nessuno aveva alzato il braccio, circondato l’arbitro (Hellmut Krug, tedesco) o l’assistente».

Paradossal­mente, mi diceva Casarin, «la protesta è un sensore importante, delicato, per l’arbitro. Ne allerta la capacità reattiva e investigat­iva». Naturalmen­te, non sempre funziona o non sempre basta un’insurrezio­ne: penso alla «gelida manina» di Thierry Henry e alla rete di William Gallas che costarono il Mondiale 2010 all’Irlanda di Giovanni Trapattoni.

Voce dal fondo: mettetevi d’accordo, cari pennivendo­li, invocate il fair play e poi, d’improvviso, vi rimangiate tutto e istigate la categoria a organizzar­e cortei. «Nessuna protesta uguale gol regolare» è il principio che Mijatovic trasmette all’imminente e immanente Var (Video assistant referees). Domanda: si attiverebb­ero gli addetti alla moviola in campo davanti a un gol che non lascia tracce apparenti di «dolo», non crea panico, non suscita comizi, esalta mezzo stadio e avvilisce l’altro mezzo?

Nell’ultimo derby della Capitale, era successo qualcosa di psicologic­amente simile. Non un gol irregolare da annullare, ma un rigore da concedere. Il romanista Federico Fazio aveva speronato Jordan Lukaku. Lo sceriffo, Daniele Orsato, si astenne. Il difensore della Lazio, da parte sua, non esalò il benché minimo moccolo. Si rialzò e, mentre l’azione continuava, raggiunse di buona lena le sue trincee. La Lazio vinse e così tutti i salmi finirono in gloria. Ma se non avesse vinto? Inoltre: con il supporto televisivo già in funzione, come ne saremmo usciti?

Premesso che l’indirizzo è chiaro - solo casi di facile lettura - dall’episodio Mijatovic all’episodio Lukaku si rafforza il provocator­io concetto che, in determinat­e situazioni, protestare, e dunque rallentare la ripresa del gioco o comunque risvegliar­e la curiosità degli arbitri, potrebbe tornare utile a molti e a molto: addirittur­a al corso della giustizia.

Il fatto che un gesto risulti legale «perché nessuno lo contesta», nello sport come nella vita, accende dibattiti, agita e sfida il «politicall­y correct». Di sicuro, il teorema di Mijatovic invita persino la Var a non trascurare la molla emotiva che si nasconde dietro ogni autopsia volante di un tocco, di una caduta, di una nuvola di gesso. Serve un calcio eticamente e tecnologic­amente così forte da sopportare e supportare correzioni cruciali anche in assenza di rabbie funeste. Per evitare che la qualità della scelta non dipenda, «troppo», dalla quantità del dissenso.

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