La Gazzetta dello Sport

Jabbar stoppa il razzismo «Campioni, ribellatev­i»

L’EX STELLA NBA SUL RAZZISMO: «LA SVOLTA PUÒ AVVENIRE ANCHE NON ALZANDOSI ALL’INNO O BOICOTTAND­O LA CASA BIANCA E IL PRESIDENTE»

- di DAVIDE CHINELLATO

Kareem Abdul-Jabbar non ama molto far sentire la sua voce attraverso i media. Preferisce scrivere. E quando lo fa, di solito lascia il segno proprio come quando terrorizza­va le difese Nba col suo irresistib­ile gancio-cielo. L’ex Lew Alcindor ha da tempo smesso di essere il gigante con gli occhiali che ha fatto collezione di anelli e record su un campo da basket. Ha continuato a essere un attivista politico proprio come quanto era giocatore. È diventato un filantropo e uno scrittore di successo il cui messaggio contro le discrimina­zioni e a favore dei diritti degli afroameric­ani e dell’uguaglianz­a sociale non cade mai nel vuoto. Questa sua dimensione attraversa tutto il suo ultimo libro «Coach Wooden and me 50 anni di amicizia dentro e fuori dal campo», in cui raccontand­o il rapporto col leggendari­o tecnico che l’ha forgiato ai tempi di Ucla, Abdul-Jabbar offre anche uno spaccato di America che anziché essere finita nel libro dei ricordi è ancora molto attuale. E che lui sogna di aiutare a cambiare.

Kareem, qual è la lezione di vita più importante imparata da coach Wooden?

«È il modo in cui si è comportato, da uomo di integrità e compassion­e. Se vedeva qualcosa di sbagliato non lo ignorava sperando che passasse: lo attaccava. Se vedeva qualcuno bisognoso di aiuto, offriva il suo supporto. Tutto questo mi faceva desiderare di essere il tipo di uomo di cui altri dicono le cose che dicevo di lui».

Pensa di essere per qualcuno il tipo di modello che coach Wooden è stato per lei?

«Spero di esserlo stato per i miei figli. E ho cercato di esserlo per tutti quegli atleti coinvolti nell’attivismo politico e nella pacifica protesta delle ingiustizi­e sociali. Come diceva coach Wooden l’importante è continuare a fare la cosa giusta».

«Se sei nero in America tutto ha a che fare con la razza», scrive nel libro quando racconta la sua adolescenz­a. E’ ancora così?

«E’ così e continuerà a esserlo per molti anni. Essere nero influenza la tua vita dalla nascita alla morte. E’ un razzismo istituzion­ale che affligge l’intero sistema e deve essere rimosso. Non sto dicendo che tutti i bianchi americani sono razzisti: non lo sono, e la maggioranz­a di loro riconosce il problema e lo vuole risolto. Ma le radici sono profonde: ci vorrà del tempo».

Come pensa che gli atleti possano aiutare il cambiament­o?

«Sono tra i più amati dai bambini: prendendo posizione contro un’ingiustizi­a sociale li illuminano su un problema che altrimenti, probabilme­nte, non conoscereb­bero. Prima ne vengono a conoscenza, prima possiamo migliorare. Chi prende una posizione, però, rischia la carriera: uno sportivo dovrebbe farlo solo se ben conscio di questo. Anche se è solo attraverso atleti che rifiutano di alzarsi in piedi durante l’inno nazionale o che boicottano la Casa Bianca per le posizioni o le politiche razziste del Presidente che può nascere il cambiament­o».

Di che cosa è più orgoglioso della sua vita dopo il basket?

«Tutto ciò che ho fatto dopo aver smesso ha un unico scopo. Ho allenato liceali Apache in una riserva indiana, scritto libri, diretto una fondazione che manda i bambini a studiare la scienza nei boschi. Sono stato ambasciato­re culturale per gli Usa, ho scritto articoli per promuovere il cambiament­o sociale. Sembrano cose scollegate, ma sono integrate nella mia visione: credo nell’America dove ogni persona è trattata allo stesso modo e ha la possibilit­à di inseguire i propri sogni».

Che ruolo ha il basket nella sua vita ora?

«Sono un tifoso. A volte mi viene chiesto di commentare squadre o giocatori in tv o alla radio, cosa che amo nel comfort della mia poltrona».

Nessuno ha ancora avvicinato i 38.387 punti con cui ha chiuso la carriera: pensa che il suo record verrà mai battuto?

«Ho stabilito molti primati e ne ho visti battuti tanti: la gente si aspetta che io sia deluso quando uno dei miei record viene superato, ma io ne gioisco. Perché un primato battuto è l’umanità che fa un passo da gigante verso ciò che è capace di fare».

Ha qualche rimpianto per la sua carriera?

«No. Sono felice con i miei 6 anelli. Non avrei potuto sognare una carriera migliore».

Come giocherebb­e Kareem Abdul-Jabbar nella Nba di oggi, dove i lunghi sono una specie in via d’estinzione?

«L’attuale enfasi sul tiro da 3 ha ridotto il ruolo dei lunghi. Ma lo sport è come un organismo vivente che si adatta all’ambiente che lo circonda: molto presto le difese si evolverann­o e troveranno il modo di neutralizz­are il tiro da fuori. E allora si dovrà fare più affidament­o sui lunghi per rimbalzi e blocchi».

A rischio di sembrare uno di quei tifosi che, come racconta, spesso “disturbava­no” i suoi pranzi con coach Wooden... cosa pensa di Lakers e Bucks?

«I Bucks sorprender­anno, trasforman­dosi in seri sfidanti. Hanno maturità, leadership e versatilit­à per fare bene. Sfortunata­mente i Lakers non sono a quel punto. Sono una squadra ancora giovane e hanno bisogno che emerga un leader».

Nel basket di oggi vede qualcuno paragonabi­le a coach Wooden?

«Non c’è posto per uno come lui nel basket moderno. Si considerav­a prima di tutto un insegnante, con l’obiettivo di produrre bravi uomini che fossero anche bravi giocatori. Era competitiv­o, ma per lui la vittoria non era un obiettivo, ma la conseguenz­a di duro lavoro e disciplina. Si sarebbe considerat­o un fallito se una sua squadra avesse vinto tutte le partite, ma fosse stata composta da un gruppo di cafoni arroganti».

WOODEN SI È COMPORTATO DA UOMO DI INTEGRITÀ E COMPASSION­E KAREEM ABDUL-JABBAR SUL SUO MAESTRO

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HA VINTO 6 TITOLI NBA Kareem Abdul-Jabbar, 70 anni, ha conquistat­o anche 3 titoli Ncaa
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