La Gazzetta dello Sport

MAI MESSI CON DYBALA: MA HA UN SENSO?

- di ANDREA SCHIANCHI email: aschianchi@rcs.it

Jorge Sampaoli, attuale commissari­o tecnico dell’Argentina, è certamente un bravissimo allenatore, un impareggia­bile stratega e un raffinato tattico. Tuttavia, dopo le parole pronunciat­e nei giorni scorsi, e al netto del risultato della Selecciòn contro il Perù, passa per essere il più cinico e spietato killer di sogni. «Messi e Dybala non possono giocare assieme: sono troppi simili» ha dichiarato. D’improvviso i bambini di Buenos Aires e dintorni, e i loro padri e i loro nonni, si sono sentiti perduti: perché i migliori non possono coesistere? La risposta è il solito ritornello: rischiano di pestarsi i piedi, non hanno una precisa collocazio­ne. Come se in un campo lungo 105 metri e largo 68 non ci fosse abbastanza spazio per due persone. La verità è che la scelta di Sampaoli è figlia di un’esasperata attenzione ai moduli e agli schemi, alle diagonali e alle marcature preventive, al pressing e a tutte quelle diavolerie che tolgono emozione e pathos, e mettono al bando la fantasia. Verrebbe da domandare al señor Sampaoli: se Maradona e Messi fossero stati della stessa generazion­e, avrebbe avuto il coraggio di sacrificar­ne uno in nome della tattica? E come avrebbero reagito i tifosi argentini?

Noi italiani, di dualismi e di staffette, ce ne intendiamo abbastanza: Mazzola e Rivera al Mondiale di Messico ‘70 sono la punta dell’iceberg, e si sa bene come la gente reagì (pomodori al ritorno) contro il c.t. Ferruccio Valcareggi. E poi, decenni più tardi, non ci siamo fatti mancare nulla: vi ricordate la rivalità tra Roberto Baggio e Gianfranco Zola? Se gioca uno, l’altro sta fuori: non c’era posto per due numeri 10, al diavolo i dribbling e le genialate, ciò che contava era il rispetto del copione, tanti soldatini che eseguivano gli ordini. Siccome anche gli avversari si comportava­no come noi, in campo si cucinavano delle orribili «marmellate» a centrocamp­o dalle quali non usciva un’idea. Nel 1994, perché è del calcio degli anni Novanta che stiamo parlando, vinse il Mondiale il Brasile di Dunga e Mauro Silva, non proprio una Seleçao talentuosa e divertente.

A Sampaoli, tra un saggio di tattica e l’altro, suggeriamo di leggere la formazione del Brasile del 1970, probabilme­nte la più bella nazionale di sempre. Il c.t. Zagallo schierava, tutti assieme, Jarzinho, Gerson, Tostao, Pelé e Rivelino. Cinque numeri 10. Oggi lo condannere­bbero all’ergastolo o lo rinchiuder­ebbero in qualche ospedale per il recupero di gravi casi psichiatri­ci. Dimentican­do, però, che il gioco di quel Brasile era musica e gioia. E la gioia non viene mai dalla tattica, figlia dello studio, ma dalla tecnica, espression­e dell’istinto.

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