La Gazzetta dello Sport

«IO E CAGNOTTO COSÌ DAL NULLA L’ITALIA DIVENNE UNA POTENZA»

- Stefano Arcobelli

A MONTREAL PORTABANDI­ERA: CHE ONORE PER UN ALTOATESIN­O KLAUS DIBIASI PLURIOLIMP­IONICO TUFFI L’ANGELO BIONDO COMPIE 70 ANNI «CON THOENI POPOLARI ANCHE SENZA SOCIAL. E LE NOSTRE IMPRESE RIMANGONO PIÙ IMPRESSE NELLA MEMORIA» LA MIA FORZA ERA LA FREDDEZZA: SENTIVO LE EMOZIONI MA RESTAVO FREDDO KLAUS DIBIASI PLURIOLIMP­IONICO

L’ Angelo biondo fa 70. «Ma avevo i capelli castani e ora sono bianchi» sorride calmo Klaus Dibiasi, come quando dominava dalla piattaform­a e raccogliev­a dal trampolino. Tuffarsi prima e dopo Dibiasi non è stata la stessa cosa («Klaus ha cambiato i tuffi come i Beatles hanno cambiato la musica» per Giorgio Cagnotto). Pure l’Italia era un’altra cosa. Ci si tuffa pure per un calcio di rigore e pensi sempre a Dibiasi (o in alternativ­a a Cagnotto, padre e figlia).

La sua glaciale freddezza oggi si scioglierà al cospetto dei 70 anni da tricampion­e olimpico e due argenti, 9 medaglie mondialieu­ropee?

«Non è così, mi emozionavo, ma non abbastanza da non rimanere freddo. Dominare l’emozione era la mia forza. Un’altra forza derivava dalla presenza costante di mio padre Carlo. La sicurezza familiare in un campione non è indifferen­te. Oggi atleti con genitori separati spesso hanno problemi».

I suoi trionfi coincisero con quelli di un altro altoatesin­o di poche parole come Gustavo Thoeni.

«Forse perché siamo rimasti in auge per parecchi anni, medaglie chiamavano medaglie, e vincere in 4 Olimpiadi lascia importanti ricordi. Sì, c’era molta più attenzione, anche se non avevamo nulla, ma le nostre imprese rimanevano impresse nella memoria di tutti. Ora si brucia tutto velocement­e: un campione è bravo per come si muove coi media e i social, ma tutto viene banalizzat­o. I tweet non esistevano e le riviste non ci esasperava­no».

Nessuna distrazion­e?

«Noi eravamo concentrat­i e poco distratti dai telefonini. Sì, i nostri ori nascevano dal silenzio. Ricordo che prima di Monaco ‘72 si scriveva che avrei vinto l’oro di sicuro, tutto questo mi creava imbarazzo e decisi di non leggere i giornali. Perché si sa che nei tuffi basta un niente e salta tutto».

Cosa apprezza dei ragazzi di oggi?

«Hanno tutto a disposizio­ne, si rivedono i video e le registrazi­oni rapidament­e, ma anche noi ci organizzav­amo pur senza tecnologie».

La sua passione per le foto resta proverbial­e.

«Nasce dai tempi in cui gareggiavo. Mi facevo scattare le sequenze, fui tra i primi a farlo per studiare l’esercizio, e giravamo qualche video 8 millimetri. Riuscii a procurarmi una piccola camera 16 millimetri e registravo Louganis ai Mondiali di Guayaquil ‘82, ripresi le sue gare e poi prestai le immagini anche agli americani. Lo dobbiamo al nostro allenatore Goertlitz Horst, che chiamavamo Oreste: lui tra il ‘57-67 portò l’innovazion­e tedesca che tanti tecnici seguono ancora».

A proposito di tedesco: lei nato in Austria, si trasferisc­e a Bolzano nel ‘53, all’Istituto per Geometra studiava in tedesco e finì per diventare il portabandi­era azzurro nel ‘76.

«La mia prima medaglia nel ‘64 a Tokyo fu la prima estiva per un altoatesin­o, poi quando nel ‘76 mi diedero la bandiera fu un onore non indifferen­te portarla, proprio perché altoatesin­o. Ma nessuno come me poteva sentirsi più italiano, tanto che mi trasferii a Roma dopo il 1976, anche se col dialetto non ci siamo. Avevo problemi a un piede a Montreal, dissi a Onesti che anche con mezza gamba avrei sfilato. Apprezzai molto quella scelta».

Lei e Thoeni come vi confrontav­ate?

«I tuffi sono la mia vita, ma mi sarebbe piaciuto diventare anche un campione di sci. Eravamo campioni superiori, ci potevamo concedere qualche errore. Io a ogni gara sbagliavo un tuffo ma alla fine vincevo, non potevo sbagliare solo nella mia ultima a Montreal ‘76 contro Louganis, che era l’astro nascente. Lì ci fu il passaggio di consegne, lo battei nonostante il terribile dolore al tendine d’achille».

Cos’era lo stile Dibiasi?

«La mia entrata in acqua dai 10 metri: sparivo, non facevo schizzi nell’impatto. E come tenevo i polsi. Ma i tuffi non sono solo una prestazion­e tecnica e fisica, ma psicologic­a».

Dove andranno i tuffi?

«I cinesi li hanno portati in un’altra dimensione e a Tokyo vedrete una giapponese fare il quadruplo e mezzo».

Sua figlia non ha scelto i tuffi.

«Elisa fa surf in Portogallo. Condividia­mo la passione per la fotografia. Peggio andò a mio padre: mia sorella Christa faceva la ranista, mio fratello lo speaker bilingue, a me disse che avrei fallito. Poi diventai il

suo orgoglio».

Lei, leggenda dello sport italiano, come viveva quegli anni fuori dalla piscina?

«Ero amico di Giuliano Gemma, testimone di nozze di Giorgio Cagnotto, anche lui faceva i tuffi ai Regionali e aveva bisogno di stare con noi perché gli serviva per fare l’attore. Nella sua villa aveva un trampolino e un tappeto elastico. Era bravo».

Con Cagnotto che rapporto era?

«Con Giorgio non c’è mai stata rivalità, i tuffi possono portare solo amicizia: io ero più introverso. C’è grande amicizia anche con Sara Simeoni e il marito: andavamo da Azzaro a Formia, aggiunse grandi novità nella preparazio­ne, ci aiutava per la forza esplosiva di gambe».

Erano anni di proteste, dai pugni nel ‘68, al terrorismo nel ‘72, al boicottagg­io del ‘76. Lei come li visse?

«La strage del ‘72 avvenne poche ore dopo il mio oro, eravamo già andati via. Ma quell’anno nel Villaggio bastava avere la divisa della nazionale per entrare. Anch’io feci entrare mio padre accreditat­o come atleta. Altri tempi. Erano anni di curiosità, voglia di emergere. Come nei tuffi a Bolzano: dal nulla diventammo una potenza».

Come festeggerà i 70 anni?

«All’Eur in famiglia, alla piscina delle Rose del fratello di mia moglie Laura (Schermi, ex tuffatrice): in modo tranquillo».

Rivivendo quelle imprese cosa prova adesso?

«Guardandom­i indietro sento il valore storico e la responsabi­lità di aver tenuto alto il livello dello sport italiano. Molta gente si ricorda, mi ferma e mi dice “ero tuo fan”. Sono contento che Tania Cagnotto abbia proseguito il nostro cammino e ci sia un seguito».

Ha mai spanciato?

«Dalla piattaform­a no, ma una volta presi zero! E’ tutta una questione di concentraz­ione».

Si vedrà un altro Dibiasi?

«Per capire le abilità di un campione basta tuffarlo a 5 anni, anche se io cominciai a 10...».

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1 Klaus Dibiasi è nato il 6 ottobre 1947 a Solbad Hall (Aut), tuffatore come il padre Karl, olimpico a Berlino ‘36 2 Dibiasi nei panni di dirigente, dal 1977 vive a Roma
FIGLIO D’ARTE 1 Klaus Dibiasi è nato il 6 ottobre 1947 a Solbad Hall (Aut), tuffatore come il padre Karl, olimpico a Berlino ‘36 2 Dibiasi nei panni di dirigente, dal 1977 vive a Roma
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