La Gazzetta dello Sport

«L’ATALANTA E’ CRESCITA IL BOLOGNA E’ FELICITA’ TORNEREI A NEW YORK»

DOMENICA L’ALLENATORE SFIDA LE ORIGINI: «A BERGAMO TECNICI ED EDUCATORI MI HANNO FATTO DIVENTARE UOMO IL MILAN? AVRANNO PENSATO CHE NON ERO ALL’ALTEZZA»

- di G.B. OLIVERO INVIATO A CASTELDEBO­LE (BO)

I l coraggio della normalità, in tempi come questi, è un lusso per pochi. L’uomo si evolve ad alta velocità, costretto a tenere il ritmo esagerato di quello che lo circonda, ma l’impronta non cambia: l’uomo di oggi è in gran parte il bambino di ieri. Roberto Donadoni, che oggi è l’allenatore di un Bologna plasmato con lo spirito giusto e un gioco moderno, ieri era un bambino appassiona­to del pallone che cresceva con la maglia dell’Atalanta addosso. Domenica Donadoni torna a Bergamo e sa già quale sarà il primo pensiero: «I sapori, le sensazioni quando avvicinavo un giocatore della prima squadra: rimangono unici e indelebili anche a distanza di tanti anni. I ragazzi di oggi questi sapori non li sentono più ed è un peccato. A Bergamo ho avuto educatori e allenatori che mi hanno fatto diventare quello che sono adesso. Sono stati artefici del mio carattere ed è un patrimonio importante».

Donadoni, dov’è casa per lei?

«Un po’ ovunque, dove c’è la mia vita. Io sto bene dappertutt­o. Per me è casa anche il centro sportivo del Bologna».

L’Atalanta è l’esempio che il suo Bologna deve seguire?

«Certo. L’Atalanta è sempre stato un esempio importante per tutto il calcio italiano. Per la gestione, il lavoro con i giovani, la crescita continua».

Il Bologna è partito molto forte, ma avete segnato 8 gol in 8 partite: è lì che si deve migliorare?

«Il potenziale offensivo è ancora inespresso. Una squadra come la nostra non può avere un bottino così misero. E in un momento positivo bisogna saper incidere ancora di più. Il Profession­ista con la P maiuscola in questi frangenti non si adatta, non si adagia, non si accontenta».

Otto sono anche i gol subiti. La solidità è il segreto?

«Il segreto è il lavoro di squadra. Per limitare gli avversari accorciamo sempre, non concediamo ripartenze e stando corti poi diventiamo produttivi in fase offensiva anche con centrocamp­isti e difensori. Abbiamo già utilizzato tre moduli diversi, proviamo tanti movimenti, i meccanismi sono studiati».

Palacio è l’ingranaggi­o che fa girare tutto?

«È un grande profession­ista, un grande giocatore e una grande persona. A 35 anni è un esempio. Ha portato vitalità nuova, ama fare le cose per bene. E’ gustoso allenarlo».

Sta responsabi­lizzando Poli ampliando il suo bagaglio: vuole che si inserisca di più senza palla?

«Può fare cinque o sei gol all’anno e sarebbe gratifican­te per lui e importante per la squadra. E vale anche per gli altri centrocamp­isti».

Prima panchina a Bologna il 1° novembre 2015 proprio contro l’Atalanta: come sono stati questi due anni?

«Intensi, belli, importanti, positivi. Club e squadra stanno evolvendo insieme, poi ci sono momenti positivi e negativi. Nel campionato scorso, ad esempio, potevamo fare meglio, ma non eravamo ancora maturi».

È più difficile insegnare un movimento o l’importanza del sacrificio?

«Insegnare uno schema non è così complicato, ma per eseguirlo serve la capacità di soffrire. E non è semplice tirarla fuori perché si tratta di qualità innate: o le hai o non le hai».

Destro si è perso per strada. Ci pensa lei a rimetterlo in carreggiat­a?

«Mattia ha grandissim­e potenziali­tà, ma deve ricordare il proverbio che dice: “Aiutati che il ciel ti aiuta”. Ciascuno di noi deve fare in modo che le cose accadano. Destro deve mettermi in difficoltà».

Disse di non essersela sentita di tornare c.t. È stata la scelta giusta?

«Allenare la Nazionale è l’ambizione più grande, ma scelsi di onorare l’impegno che avevo preso col Bologna».

Lei non ha ancora avuto una occasione in un grande club. La normalità è diventata un difetto?

«Non mi pongo domande a cui non posso dare una risposta. Evito ogni cosa che sia perdita di tempo o di energia. Penso solo a fare il massimo. Se le valutazion­i sono fatte su altre cose non dipende da me».

Perché il Milan non ha mai pensato a lei?

«Si vede che il Milan non mi ha mai ritenuto all’altezza o ha pensato che altri fossero meglio di me».

La chiusura dell’era Berlusconi cosa le ha lasciato dentro?

«Il pensiero che si sta invecchian­do. E non è piacevole».

Lei ha vissuto la rivoluzion­e culturale di Sacchi. Il lavoro di Sarri può essere paragonabi­le?

«Ci sono cose in cui si avvicinano. Hanno avuto entrambi illuminazi­oni importanti».

Cosa si porta dentro delle esperienze da giocatore a New York e in Arabia Saudita?

«Tutto. A New York ho capito che nel calcio ci si poteva anche divertire. Al Milan c’erano troppe pressioni, in America ho riscoperto il gusto del gioco. Mi portavo la roba a casa e la lavavo, era un altro mondo e ci stavo bene. Presi casa nel New Jersey per comodità e per non essere circondato dal cemento. Vivevo Manhattan da turista. Ecco, se tornassi indietro resterei lì a giocare rifiutando la proposta del Milan anche se poi rientrando vinsi lo scudetto con Zaccheroni. In Arabia ho vissuto situazioni che non avrei potuto capire dai racconti altrui».

La nebbia di Belgrado (dove rischiò la vita), il rigore di Di Natale a Euro 2008: nel calcio le «sliding doors» esistono?

«Un episodio non può cambiare nulla. Ma nulla accade per caso: bisogna trarre i giusti insegnamen­ti da ogni cosa».

Raccontò un giorno l’eccitazion­e prima della vendemmia e l’orgoglio nel fare il chierichet­to. Oggi cosa le fa brillare gli occhi?

«I miei figli. La bimba ha quasi quattro anni. Con lei rivivo situazioni dell’infanzia, tipo l’oca che mi rincorreva nel cortile della cascina della nonna».

Il golf come va?

«È una buona valvola di sfogo. Il mio handicap è 4, gioco d’estate e quando posso nelle giornate libere. Adesso sono in discreta forma...».

Il «Dac a trà», ristorante che prese con Mauro Tassotti e Marco Spreafico, ha una stella Michelin. La ricerca dell’eccellenza è il suo mantra?

«Sì, è un insegnamen­to di mamma e papà. Mi hanno trasmesso questa genetica».

GRAN GIOCATORE E GRANDE PERSONA, È UN PIACERE ALLENARLO SU RODRIGO PALACIO ATTACCANTE BOLOGNA 78 Le partite ufficiali di Donadoni da tecnico del Bologna: 26 vittorie, 19 pareggi e 33 sconfitte “AIUTATI CHE IL CIEL TI AIUTA”: MATTIA LO TENGA SEMPRE A MENTE SU MATTIA DESTRO ATTACCANTE BOLOGNA L’ADDIO DI BERLUSCONI MI FA PENSARE CHE STO INVECCHIAN­DO... SUL «SUO» MILAN E IL CAMBIO AI VERTICI

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LAPRESSE Roberto Donadoni, 54 anni, lombardo di Cisano Bergamasco. Da giocatore è cresciuto nell’Atalanta e poi è passato al Milan, dove ha vinto quasi tutto. Come allenatore ha guidato anche la Nazionale, dal 2006 al 2008
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