IL PRESIDENTE LOTITO QUESTA VOLTA È FINITO FUORI STRADA
Claudio Lotito è un uomo che ha saputo dire di no alle minacce e ai ricatti di diversi capi ultrà. Per questo è finito sotto scorta e ha cambiato la sua vita e quella della sua famiglia. Noi non ce lo dimentichiamo neanche in questi giorni. Ora, però, il presidente della Lazio è davvero finito fuori strada. Non è, o non è solo, una questione di gaffe. Usare il termine «sceneggiata» registrato dal «Messaggero» e riferito alla successiva visita in Sinagoga, poche ore dopo gli scherzi - via figurine con l’immagine di Anna Frank - sull’Olocausto in curva Sud, colpisce perché prima di ogni cosa, banalizza, riduce, derubrica a incidente di percorso, una storia tutt’altro che piccola.
Rimpicciolire non è utile, non serve, è illusorio. Ammettere un errore, assumersi una responsabilità, è un atto di forza, non di debolezza. Replicare come un disco rotto «rifarei tutto nello stesso modo», vuol dire nel migliore dei casi considerare «fisiologica» una vicenda inaccettabile. La scelta di aggirare la squalifica della Curva Nord con la «trovata» del trasloco in Sud e dei biglietti venduti a un euro, si è trasformata in un modo per ridicolizzare la giustizia sportiva e la lotta al razzismo. E se il sistema - media compresi, diciamoci la verità - ha chiuso un occhio, anzi due, questo non assolve nessuno, tantomeno l’autore di quella scelta. Insomma, nelle parole di queste ore del presidente della Lazio, serpeggia una sorta di inaccettabile sottinteso del tipo «ora fatemi tornare a lavorare». Ma lavorare è anche, oggi bisogna dire soprattutto, andare alla ricerca delle ragioni di una follia. Che cos’è che porta persone di differenti età a scherzare, o a condividere uno scherzo su una tragedia costata la vita a 6 milioni di persone? E che cos’è, tutti quanti andiamo al bar o frequentiamo i social network, che fa trattare i forni crematori come una battuta mal riuscita, magari con un tipico «sì ma ora si sta esagerando»? Queste domande se le deve fare solo Claudio Lotito? No, certo. Se le deve fare il calcio, se le deve fare una comunità, un Paese. Ma il presidente della Lazio, proprio perché ha vissuto sulla sua pelle il fatto che su certe cose è meglio non scherzare, non può rispondere con il vittimismo, l’«io non c’entro», la favoletta dei pochi, pochissimi, della quindicina di «finti tifosi», di una roba da niente. Anche perché nessuno ci crede più.