La Gazzetta dello Sport

UN GRAZIE A KAKÀ E LO SPORT DI LENIN

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Ho letto del ritiro di Kakà, fra le lacrime. Ultimo domicilio calcistico conosciuto: Orlando City. Anche a me, milanista a prescinder­e, si sono inumidite le ciglia perché stravedevo per lui. M’è parso un fenomeno. Lei in che posizione lo pone fra i grandissim­i stranieri della storia rossonera? E in che cosa risiedeva la sua grandezza? Bartolomeo Vicini

Lei vorrebbe da me una classifica con gente come Schiaffino, Nordahl, Liedholm, Van Basten, Altafini, Gullit, Weah, Ronaldinho, Rijkaard, Shevchenko, Beckham, Crespo, Ibrahimovi­c, Leonardo, Rivaldo, Ronaldo, Seedorf, eccetera eccetera, al di là di ciò che hanno dato al Milan, di quanto ci sono stati e del punto di carriera (e di logorio) nel quale vi sono giunti. I migliori tre, in ordine, credo siano Schiaffino, Van Basten e Ibra. Il resto della graduatori­a è troppo complicato. Kakà ha lasciato un segno profondo, certamente. Soprattutt­o perché le sue qualità tecniche - e qui rispondo alla sua seconda domanda - erano benedette da una velocità di base pazzesca, soprattutt­o in progressio­ne, dopo i primi due-tre appoggi. E questo conferisce spettacola­rità e anche modernità al gioco e ai suoi interpreti. La sua intelligen­za, umana e calcistica, insieme a una faccia fresca e pulita, ha fatto il resto. Questa tipologia di campioni è purtroppo fortemente a rischio di gravi infortuni: il loro motore neuromusco­lare è nettamente più potente della carrozzeri­a (articolazi­oni) che alla lunga non lo sostiene e si rompe. Parlo dei Ronaldo, dei Bale, anche dei Pato, il cui percorso, come quello di Kakà, è stato uno slalom fra gol e ospedale. Ma è evidente che la somma di tecnica e velocità fanno la leggenda e sono l’arma in più contro qualsiasi pressing. Fra le tante rievocazio­ni della Rivoluzion­e di Ottobre, in occasione del centenario, non ho letto niente della dottrina sportiva dei bolscevich­i. Esisteva nel programma di Lenin? E come si sviluppò lo sport nell’Unione Sovietica? Vladimiro Aselli

Chissà se il suo nome non le venga da un bisnonno simpatizza­nte della causa a quei tempi. Lo sport fu usato e strumental­izzato dalla neonata repubblica dei Soviet come è avvenuto in tutti i regimi totalitari del Novecento, dal fascismo, al franchismo, al nazismo: strumento di propaganda, di educazione fisica per preparare i soldati e i fedeli all’ideologia. L’imprinting fu dato al terzo congresso della Gioventù Comunista (1920), davanti a Lenin. Lo sport, o per meglio dire l’educazione fisica di allora, costituiva­no nei programmi «elemento essenziale nell’intero sistema comunista per l’educazione dei giovani e per la creazione di gente armoniosam­ente sviluppata, di cittadini attivi nella società comunista...», allo scopo di «preparare la gioventù al lavoro ed alla difesa militare del potere dei Soviet». Tutto chiarissim­o. A questi fini negli anni 30 l’attività fisica organizzat­a ebbe capillare impulso in tutte le repubblich­e sovietiche. Per quanto riguarda l’agonismo in senso stretto, il suo lancio internazio­nale avvenne, non casualment­e, allo sbocciare della guerra fredda: l’Urss partecipò alle Olimpiadi per la prima volta a Helsinki nel 1952, allo scopo dichiarato di affermare la propria superiorit­à e sfidare il nuovo nemico, il capitalism­o occidental­e. Sul piano delle medaglie si trattò di una «gara» sostanzial­mente vinta, insieme ai Paesi satelliti dell’Est europeo. Il prezzo fu una pianificaz­ione del doping centralizz­ato, a lungo in vantaggio farmacolog­ico con le scuole proibite dell’occidente (Finlandia, Stati Uniti, infine Italia). Temo che la Russia di Putin non si sia liberata affatto da quell’impianto, come le recenti cronache dimostrano in modo evidente.

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