IL DOPPIO CARRARO E CALCIOPOLI
N el libro che Franco Carraro ha dedicato a sé stesso attraverso la penna di Emanuela Audisio, «Mai dopo le ventitré / Le molte vite di un riformista», Rizzoli editore, non poteva non affiorare Calciopoli. E difatti affiora. Passeggiando fra la cotta per Joao Havelange, non proprio uno stinco di santo, e le sentenze della giustizia sportiva e non (scandalose, a mio avviso) che ne gratificarono il curriculum l’azzeramento da quattro anni e sei mesi di squalifica a nemmeno un euro di multa - il dirigente più ex d’Italia commenta così, a pagina 229, il verdetto che demolì la Juventus, retrocessa in serie B e privata di due scudetti.
«Io ritengo giusto che la Juventus abbia pagato per quello che hanno fatto Moggi e Giraudo. Nel senso che hanno violato i regolamenti. Ma credo che anche in quell’epoca a vincere i campionati sia stata la squadra più forte o più fortunata. E’ giusto aver preso delle decisioni sulla Juventus per quello che riguarda il 2004 e il 2005, ma è stato sbagliato da parte di Guido Rossi assegnare a tavolino all’Inter lo scudetto del 2006».
Qual è il problema? Il problema coinvolge le cosiddette interviste «di lancio», interviste nelle quali Carraro, ai tempi di Calciopoli presidente federale dimissionario, non batte gli stessi sentieri. Sul «Corriere della Sera» del 1° novembre Aldo Cazzullo gli chiede se Luciano Moggi influenzasse o non influenzasse questi benedetti arbitri. Risposta: «[Moggi] non è mai riuscito a far vincere un campionato alla Juve in modo illecito». Altra domanda: sta dicendo che Calciopoli si basa sul nulla? Altra replica: «Non c’è un euro. E’ solo una questione di potere, o forse solo di chiacchiere».
Di chiacchiere, addirittura. Ma allora perché scrivere, nell’autobiografia, che fu giusto che la Juventus pagasse per quello che avevano combinato il suo ex direttore generale (Moggi) e il suo ex amministratore delegato (Giraudo)? Carraro ripete gli identici concetti a Valerio Piccioni sulla «Gazzetta dello Sport» del 9 novembre. In sintesi: giusto confiscare i due titoli a Madama, ingiusto regalarne uno all’Inter. «Proprio così, è lo stesso pensiero che allora manifestò anche Candido Cannavò». E ancora, più in generale: «Non si è mai rintracciato un euro illecito. Per me è stata una partita di potere, incentivata da un sacco di chiacchiere».
Per questo, soprattutto per questo, ho letto e riletto le righe del testo che inchiodavano la Juventus. «In un viale senza uscita, l’unica uscita è nel viale stesso», sosteneva papa Wojtyla (da un articolo di Barbara Spinelli su «La Stampa» del 3 aprile 2005). Nel nostro caso, però, le uscite (e le versioni) sono due, due come le buste che di solito si consegnano ai concorrenti dei telequiz perché poi si arrangino.
Resta un classico dell’oratoria nazionale buttarsi con il paracadute del «ma anche». Carraro è Carraro. Sa bene che i santi in paradiso non servono. Servono in terra. Come, per esempio, Piero San-Dulli, il presidente della Corte federale che derubricò a innocenti «pissi pissi» le telefonate in cui il grande capo chiedeva ai designatori Paolo Bergamo e Pierluigi Pairetto di non favorire la Juventus (perché, la favorivano?) e di non trascurare una certa qual partita tra Lazio e Brescia, commosso dai titoli dei giornali romani: «Congiura contro la Lazio». Franco (quasi) sempre.