L’ARTE DELLA REGIA TRA PIRLO E XAVI
L’addio di Andrea Pirlo non solo ha anticipato il «ritiro» della Nazionale, ma aiuta a esplorare un ruolo delicato e cruciale nella storia del calcio. Il mestiere di regista. Negli anni Trenta, quando spopolava il metodo, si chiamava centromediano metodista, appunto, e teneva bottega - già allora, soprattutto allora - davanti alla difesa.
Non si può non ricordare Luis Monti, l’armadio al quale Vittorio Pozzo affidò il guardaroba dell’Italia del 1934, campione del Mondo a Roma dopo il 2-1 alla Cecoslovacchia. Con l’Argentina, Monti aveva disputato e perso la finale del 1930, a Montevideo, in uno stadio polveriera. Erano altri tempi, tempi in cui le squadre pretendevano che si giocasse con il pallone portato da casa, e così l’arbitro, che teneva famiglia, cominciò con quello argentino per poi passare a quello «charrua». Morale: 4-2 per l’Uruguay.
Giancarlo «Picchio» De Sisti ed Eraldo Pecci erano registi di posizione e di tocco. Non esplosivi, e neppure plateali: ordivano una tela che spesso diventava ragnatela. Giuseppe Giannini detto il Principe, in compenso, allargò il repertorio fino al gusto per il tiro, mentre ad Antonio «Totonno» Juliano piaceva sequestrare la palla, e recapitarla, geloso e curioso del panorama che attraversava.
C’è chi ne ha fatto a meno, e ha vinto comunque: la Nazionale di Enzo Bearzot, la Juventus tutta italiana di Giovanni Trapattoni; e persino il Milan di Arrigo Sacchi, per il quale il «leader era il gioco». Luisito Suarez non lo ha mai nascosto: «Mi rivedo in Pirlo». Per un sacco di motivi: per la gamma delle soluzioni (lanci, taglio dei passaggi, punizioni) e perché, nel dettaglio, Helenio Herrera gli aveva corretto la posizione, più attaccante a Barcellona, più centrocampista nell’Inter.
Un po’ quello che fece Carlo Mazzone con Pirlo, nel Brescia. Pur di sommarlo a Roberto Baggio, gli arretrò il raggio d’azione. Da trequartista a perno basso del reparto, adeguando le esigenze globali alle doti individuali, il massimo. L’intuizione trovò in un altro Carlo, Ancelotti, una straordinaria sponda, tanto che il Pirlo del Milan inaugurò il ciclo poi raffinato nella Nazionale di Marcello Lippi e nella Juventus di Antonio Conte prima e di Massimiliano Allegri poi.
La regia di Pirlo e la regia di Xavi hanno scandito questo scorcio di secolo. Pirlo, cioè calcio metà italianista e metà europeo. Xavi, cioè Barça e Spagna, palla corta e ricamare. Pirlo è stato Pirlo in molte squadre tranne all’Inter, Xavi, per scelta, soltanto in Catalogna. L’italiano ha cavalcato e domato tattiche e tatticismi, lo spagnolo è stato padroneprigioniero, sempre e comunque, dello stesso catechismo, per moderno e abbagliante che fosse. Siamo sul piano dell’eccellenza, li potremmo dividere così: Xavi, più schematico e orizzontale; Pirlo, più libero e verticale. Per questo, preferisco Pirlo, al di là della perfezione che Xavi raggiunse nel totalizzante tiki-taka del Barcellona di Pep Guardiola (e di Leo Messi e di Andrés Iniesta).
Cominciato alla periferia delle punte, il viaggio di Pirlo si è concluso sull’uscio della difesa. Non proprio un trasloco banale. Eppure ancora oggi c’è chi giudica venti metri più avanti o più indietro, più a destra o più a sinistra, un attentato alle lavagne se non, addirittura, una violenza ideologica alle persone. Si preferiscono gli «arresti domiciliari» del modulo ai rischi di visioni e zingarate più ampie. Contenti loro.