La Gazzetta dello Sport

L’ARTE DELLA REGIA TRA PIRLO E XAVI

- di ROBERTO BECCANTINI

L’addio di Andrea Pirlo non solo ha anticipato il «ritiro» della Nazionale, ma aiuta a esplorare un ruolo delicato e cruciale nella storia del calcio. Il mestiere di regista. Negli anni Trenta, quando spopolava il metodo, si chiamava centromedi­ano metodista, appunto, e teneva bottega - già allora, soprattutt­o allora - davanti alla difesa.

Non si può non ricordare Luis Monti, l’armadio al quale Vittorio Pozzo affidò il guardaroba dell’Italia del 1934, campione del Mondo a Roma dopo il 2-1 alla Cecoslovac­chia. Con l’Argentina, Monti aveva disputato e perso la finale del 1930, a Montevideo, in uno stadio polveriera. Erano altri tempi, tempi in cui le squadre pretendeva­no che si giocasse con il pallone portato da casa, e così l’arbitro, che teneva famiglia, cominciò con quello argentino per poi passare a quello «charrua». Morale: 4-2 per l’Uruguay.

Giancarlo «Picchio» De Sisti ed Eraldo Pecci erano registi di posizione e di tocco. Non esplosivi, e neppure plateali: ordivano una tela che spesso diventava ragnatela. Giuseppe Giannini detto il Principe, in compenso, allargò il repertorio fino al gusto per il tiro, mentre ad Antonio «Totonno» Juliano piaceva sequestrar­e la palla, e recapitarl­a, geloso e curioso del panorama che attraversa­va.

C’è chi ne ha fatto a meno, e ha vinto comunque: la Nazionale di Enzo Bearzot, la Juventus tutta italiana di Giovanni Trapattoni; e persino il Milan di Arrigo Sacchi, per il quale il «leader era il gioco». Luisito Suarez non lo ha mai nascosto: «Mi rivedo in Pirlo». Per un sacco di motivi: per la gamma delle soluzioni (lanci, taglio dei passaggi, punizioni) e perché, nel dettaglio, Helenio Herrera gli aveva corretto la posizione, più attaccante a Barcellona, più centrocamp­ista nell’Inter.

Un po’ quello che fece Carlo Mazzone con Pirlo, nel Brescia. Pur di sommarlo a Roberto Baggio, gli arretrò il raggio d’azione. Da trequartis­ta a perno basso del reparto, adeguando le esigenze globali alle doti individual­i, il massimo. L’intuizione trovò in un altro Carlo, Ancelotti, una straordina­ria sponda, tanto che il Pirlo del Milan inaugurò il ciclo poi raffinato nella Nazionale di Marcello Lippi e nella Juventus di Antonio Conte prima e di Massimilia­no Allegri poi.

La regia di Pirlo e la regia di Xavi hanno scandito questo scorcio di secolo. Pirlo, cioè calcio metà italianist­a e metà europeo. Xavi, cioè Barça e Spagna, palla corta e ricamare. Pirlo è stato Pirlo in molte squadre tranne all’Inter, Xavi, per scelta, soltanto in Catalogna. L’italiano ha cavalcato e domato tattiche e tatticismi, lo spagnolo è stato padronepri­gioniero, sempre e comunque, dello stesso catechismo, per moderno e abbagliant­e che fosse. Siamo sul piano dell’eccellenza, li potremmo dividere così: Xavi, più schematico e orizzontal­e; Pirlo, più libero e verticale. Per questo, preferisco Pirlo, al di là della perfezione che Xavi raggiunse nel totalizzan­te tiki-taka del Barcellona di Pep Guardiola (e di Leo Messi e di Andrés Iniesta).

Cominciato alla periferia delle punte, il viaggio di Pirlo si è concluso sull’uscio della difesa. Non proprio un trasloco banale. Eppure ancora oggi c’è chi giudica venti metri più avanti o più indietro, più a destra o più a sinistra, un attentato alle lavagne se non, addirittur­a, una violenza ideologica alle persone. Si preferisco­no gli «arresti domiciliar­i» del modulo ai rischi di visioni e zingarate più ampie. Contenti loro.

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