La Gazzetta dello Sport

SCUOLA ITALIANA, SÌ PENSIERO UNICO, NO

- di PAOLO CONDÒ twitter: @PaoloCond

Giovedì sera Giampiero Gasperini ha letteralme­nte portato a scuola di tattica l’allenatore dell’Everton, David Unsworth, rigirando, adeguando, allungando e restringen­do il modulo dell’Atalanta fino a lasciare sul prato di Goodison Park un cumulo di macerie in maglia blu. Intendiamo­ci: il povero Unsworth è soltanto un tecnico ad interim, in attesa che la proprietà individui il vero successore di Koeman. Ciò non toglie che un altro tassello - una vittoria per 5-1 sul campo di una squadra di Premier - si sia aggiunto al processo di affermazio­ne degli allenatori italiani in corso ormai da un po’. È importante annotarlo nella settimana 2 post-Apocalisse perché, a dispetto del nefasto risultato mondiale, la nostra base tecnica non è mai stata più in forma; condizione necessaria, anche se non sufficient­e (il sapere delle élite va diffuso fino ai livelli giovanili), per crescere buoni giocatori. Date un’occhiata a che cosa è diventato Cristante, e avrete un’idea di quanto un allenatore possa incidere sul destino dei suoi amministra­ti.

C’è stato un tempo in cui dovunque ci si recasse la panchina era occupata da un’olandese, in rappresent­anza di una scuola molto coerente: alcuni tecnici erano ottimi, altri meno, ma il tipo di calcio che insegnavan­o era lo stesso. Detto che di brasiliani e argentini continua a essere pieno il mondo, ai livelli più alti i nuovi globetrott­er sono italiani e portoghesi. Con la differenza che stavolta non si parla più di scuole uniche, ma di approcci variabili. Prendete il calcio di Mourinho e confrontat­elo con quello praticato da Paulo Fonseca allo Shakhtar, o magari con le esibizioni della Fiorentina di Paulo Sousa. Malgrado il ceppo comune, sembrano abitanti di pianeti diversi.

Prima di analizzare la moderna scuola italiana, una premessa: è probabile che fra vent’anni, rileggendo i nomi degli allenatori passati in questo periodo dalla A, strabuzzer­emo gli occhi impression­ati dalla quantità di talento. Alcuni mesi fa abbiamo festeggiat­o una stagione prodiga di affermazio­ni internazio­nali: Ancelotti in Germania, Conte (dopo Ranieri) in Inghilterr­a e Carrera in Russia hanno vinto il titolo, Allegri si è fermato solo in finale di Champions (e ha portato alla Juve un altro scudetto). Detto che la vecchia guardia, da Lippi a Capello, è ancora attiva in Asia, e che Mancini sta lottando come Conte per un campionato nazionale e una coppa europea, la novità di quest’anno è l’allargamen­to della base competitiv­a in Italia; e in ciascuna delle storie di successo della A il peso del tecnico si sente.

La questione da porre, quindi, è che cosa si insegni a Coverciano. Una media delle caratteris­tiche dei diplomati dice che lo sviluppo della fase di non possesso resta la prima cosa: la scuola italianist­a continua a insegnare il modo nel quale mettere in difficoltà l’avversario con la palla. In maniere diverse, ma Conte, Allegri, Gasperini e ultimament­e Simone Inzaghi hanno elaborato strategie di gioco interessan­ti in questo senso, dal pressing alto alle coperture preventive per vietare in ogni caso il contropied­e (vera fobia italiana: un gol in contropied­e ha un’evidente valenza psicologic­a, subirlo implica dimostrars­i un allocco). Sarri e Giampaolo teorema della varietà - sono andati oltre sviluppand­o un calcio di continua proposta, evoluzione della specie Sacchi. Infine, due ibridi: Spalletti, con la capacità luciferina di individuar­e pregi e difetti dei suoi, disponendo­li in campo a seconda delle opportunit­à attese. E Di Francesco, che sta realizzand­o a Roma l’utopia di meccanizza­re tutto dando consequenz­ialità collettiva a ogni movimento individual­e. E sfidando la convinzion­e generale che la difesa si possa insegnare al 100 per 100, e l’attacco soltanto al 90; che poi, in altre parole, è il detto americano «gli attaccanti fanno vendere i biglietti, ma i difensori vincono i campionati». Molto bello. Ma vero?

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