SCUOLA ITALIANA, SÌ PENSIERO UNICO, NO
Giovedì sera Giampiero Gasperini ha letteralmente portato a scuola di tattica l’allenatore dell’Everton, David Unsworth, rigirando, adeguando, allungando e restringendo il modulo dell’Atalanta fino a lasciare sul prato di Goodison Park un cumulo di macerie in maglia blu. Intendiamoci: il povero Unsworth è soltanto un tecnico ad interim, in attesa che la proprietà individui il vero successore di Koeman. Ciò non toglie che un altro tassello - una vittoria per 5-1 sul campo di una squadra di Premier - si sia aggiunto al processo di affermazione degli allenatori italiani in corso ormai da un po’. È importante annotarlo nella settimana 2 post-Apocalisse perché, a dispetto del nefasto risultato mondiale, la nostra base tecnica non è mai stata più in forma; condizione necessaria, anche se non sufficiente (il sapere delle élite va diffuso fino ai livelli giovanili), per crescere buoni giocatori. Date un’occhiata a che cosa è diventato Cristante, e avrete un’idea di quanto un allenatore possa incidere sul destino dei suoi amministrati.
C’è stato un tempo in cui dovunque ci si recasse la panchina era occupata da un’olandese, in rappresentanza di una scuola molto coerente: alcuni tecnici erano ottimi, altri meno, ma il tipo di calcio che insegnavano era lo stesso. Detto che di brasiliani e argentini continua a essere pieno il mondo, ai livelli più alti i nuovi globetrotter sono italiani e portoghesi. Con la differenza che stavolta non si parla più di scuole uniche, ma di approcci variabili. Prendete il calcio di Mourinho e confrontatelo con quello praticato da Paulo Fonseca allo Shakhtar, o magari con le esibizioni della Fiorentina di Paulo Sousa. Malgrado il ceppo comune, sembrano abitanti di pianeti diversi.
Prima di analizzare la moderna scuola italiana, una premessa: è probabile che fra vent’anni, rileggendo i nomi degli allenatori passati in questo periodo dalla A, strabuzzeremo gli occhi impressionati dalla quantità di talento. Alcuni mesi fa abbiamo festeggiato una stagione prodiga di affermazioni internazionali: Ancelotti in Germania, Conte (dopo Ranieri) in Inghilterra e Carrera in Russia hanno vinto il titolo, Allegri si è fermato solo in finale di Champions (e ha portato alla Juve un altro scudetto). Detto che la vecchia guardia, da Lippi a Capello, è ancora attiva in Asia, e che Mancini sta lottando come Conte per un campionato nazionale e una coppa europea, la novità di quest’anno è l’allargamento della base competitiva in Italia; e in ciascuna delle storie di successo della A il peso del tecnico si sente.
La questione da porre, quindi, è che cosa si insegni a Coverciano. Una media delle caratteristiche dei diplomati dice che lo sviluppo della fase di non possesso resta la prima cosa: la scuola italianista continua a insegnare il modo nel quale mettere in difficoltà l’avversario con la palla. In maniere diverse, ma Conte, Allegri, Gasperini e ultimamente Simone Inzaghi hanno elaborato strategie di gioco interessanti in questo senso, dal pressing alto alle coperture preventive per vietare in ogni caso il contropiede (vera fobia italiana: un gol in contropiede ha un’evidente valenza psicologica, subirlo implica dimostrarsi un allocco). Sarri e Giampaolo teorema della varietà - sono andati oltre sviluppando un calcio di continua proposta, evoluzione della specie Sacchi. Infine, due ibridi: Spalletti, con la capacità luciferina di individuare pregi e difetti dei suoi, disponendoli in campo a seconda delle opportunità attese. E Di Francesco, che sta realizzando a Roma l’utopia di meccanizzare tutto dando consequenzialità collettiva a ogni movimento individuale. E sfidando la convinzione generale che la difesa si possa insegnare al 100 per 100, e l’attacco soltanto al 90; che poi, in altre parole, è il detto americano «gli attaccanti fanno vendere i biglietti, ma i difensori vincono i campionati». Molto bello. Ma vero?