CALCIO, RUGBY E TECNICA TRADITA
«Insigne e gli assi fanno la differenza», scrivevate qualche giorno fa, esprimendo il concetto che in una partita di calcio vince la squadra che ha più top player. Immagino che questo valga anche per il rugby. E dal momento che nella nostra Nazionale (di rugby) di campioni c’è soltanto Parisse, che speranza abbiamo di affermarci? E se la Nazionale rappresenta tutto un movimento e il livello di questo è basso, come potrà questa Nazionale essere vincente? E così si arriva alla conclusione che sia necessario investire nel settore giovanile. Magari già succede. Ma è pensabile che a 18 anni i ragazzi siano preparati se tutti gli allenatori delle giovanili pensano esclusivamente alla partita domenicale e al fitness, trascurando clamorosamente la tecnica? Se poi, al contrario, la tecnica fosse insegnata come si conviene, vorrebbe dire che gli allievi non sono ricettivi oppure che gli insegnanti hanno difficoltà nel trasmetterne le nozioni. Vittorio Pepe
Lettera molto stimolante, cui comincio a rispondere con quella che potrebbe sembrare una fuga in avanti: e se fosse proprio questo il problema di gran parte degli sport di squadra italiani? Cioè il depotenziamento dell’insegnamento tecnico propriamente detto, a vantaggio di un muscolarismo considerato primo valore? Mi piacerebbe che su un tema come questo si convocassero altri «Stati Generali», dopo quelli che il Coni ha dedicato ai suoi massimi sistemi.
Lei parte dal rugby: certamente anche in questo sport è utile proporre il nostro tema generale. Ma se si vince in media una o due partite su dieci da anni, c’è da concludere in primo luogo che ci ostiniamo a competere in un contesto improprio. Una sorta di accanimento agonistico. Come se Alaves, Benevento, Crystal Palace o Colonia avessero la pretesa di disputare una Champions da protagonisti. Anche con la palla ovale in mano, tuttavia, l’impressione chiara è che un armadio umano di scarso talento sarà sempre battuto da un giocatore-Tir che ci sa fare con mani e piedi.
Nei settori giovanili, di ogni disciplina, il dibattito fra chi bada subito ai risultati e chi se ne disinteressa in buona parte per «costruire giocatori» è in piedi da sempre. Credo che sia un falso problema, perché i giocatori si costruiscono anche nel momento agonistico e non ci si può mai allenare a perdere. Ma la cura dei fondamentali rimane al centro di ogni riflessione e approfondimento. Negli ultimi 20-30 anni, e mi riferisco al calcio, c’è stata una rivoluzione copernicana: eravamo conosciuti come una fabbrica nazionale di talenti ipercreativi (Rivera, Mazzola, Baggio, Zola, Del Piero, Totti, Pirlo e non pochi altri) mentre gli spagnoli annaspavano nel limbo di perdenti (parlo di nazionale), il campionato tedesco produceva noia e atleti limitati, gli inglesi si ancoravano ai lanci di 40 metri alla cieca. Oggi guardatevi attorno: pare che noi abbiamo solo Insigne capace di proporre un dribbling, gli spagnoli non li vediamo proprio più, i talenti tedeschi si sprecano, gli inglesi giocano palla a terra che è un piacere.
Sebastiano Vernazza ha reso pubblica nei giorni scorsi una dichiarazione di un allenatore delle giovanili del calcio, avuta nell’ambito di un colloquio informale: «Oggi i criteri di selezione Figc puntano su intensità e fisicità, la tecnica viene dopo. Ci chiedono di compilare schede sui giocatori con questa scala di valori. Io mi rifiuto». Allarmante, ma purtroppo tutto torna. Ho l’impressione che molto della crisi italiana parta da qui. Mi piacerebbe che Porto Franco potesse ospitare un dibattito informato sul tema.