La Gazzetta dello Sport

LINGUA DEI MISTER SERVE IL DIZIONARIO

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on è facile tradurre le conferenze degli allenatori - o di «alcuni», almeno - quando parlano di altri allenatori. Intendiamo­ci: tradurle non tanto da una lingua all’altra, quanto piuttosto da un linguaggio all’altro. Fuor di metafora: dai concetti vestiti ai concetti nudi, dalla forma alla sostanza. Fuor di metafora, appunto.

Dopo Arsenal-Manchester United e prima del derby di Manchester, a Pep Guardiola avevano chiesto un parere sul catechismo di José Mourinho. La risposta è stata (sorriso più, smorfia meno): «Se non sono forti un mister e una squadra che subiscono 33 tiri e vincono comunque per tre a uno, ditemi voi quali mister o quali squadre possono essere forti, o più forti».

In base al lessico, nulla da eccepire. Una coccola. Se però scaviamo un poco, solo un poco, e ci muniamo di un vocabolari­o dal Guardioles­e all’italiano, ecco saltar fuori una chiave di lettura diversa. E cioè: «che razza di messaggio può mai inviare il calcio di un tizio che sopravvive a un bombardame­nto del genere, e addirittur­a ne va fiero? Non certo il mio. Quando il migliore in campo è il portiere (e David De Gea, portiere dello United, fu effettivam­ente il Golia della partita), hai voglia di gonfiare il petto. Classe? Comincia sempre per “c”, ma non è classe e nemmeno coraggio o cautela». La rissa di Old Trafford ha smascherat­o la tempesta che covava sotto la quiete, falsa, del protocollo.

Un’altra coppia che avrebbe bisogno del Devoto-Oli di turno è la coppia Arrigo Sacchi-Massimilia­no Allegri. Sono di fronte filosofie opposte e non, sempliceme­nte, malizie lontane. Volgarizza­re quesiti come «Max, la gente che incontro mi chiede di domandarti perché alla distanza la tua Juventus finisce spesso per gestire le partite invece di dominarle», è libidine pura. E sia chiaro: sono davvero molti, moltissimi, i tifosi juventini che la pensano come il Fusignanis­ta. Provo a tradurre: Max, a volte non ti sembra di esagerare con la speculazio­ne tattica, con quella tendenza a rinculare che rappresent­a l’Italia del passato e non l’Europa del futuro?

Nello stesso tempo, non bisogna aver sciacquato i panni nel Tirreno per decifrare il codice del Livornese. La risposta standard avvolge e coinvolge l’autorevole­zza dell’interlocut­ore, gli errori tecnici che hanno costellato la grammatica del compito in classe juventino. E via dicendo. Viceversa, la replica libera dal fard delle convenzion­i suonerebbe più o meno così: proprio tu, Arrigo, tu che hai avuto Tassotti-Costacurta-Baresi-Maldini più Donadoni più i tre olandesi più grandi della storia dopo Johan Cruijff, proprio tu non capisci o fingi di non capire quanto l’individuo pesi più della lavagna, la scintilla più del fiammifero? A te Berlusconi aggiungeva, a me gli Agnelli danno e tolgono: Dybala e Higuain, d’accordo, ma li hai più visti Vidal, Tevez, Pogba, Bonucci? Tu eri Ulisse, io sono Penelope.

Naturalmen­te, la versione è farina del mio sacco (singolare). Gli stadi sono teatrini, non teatri. Avrei pagato per assistere con Eugenio Fascetti e Arrigo alle fasi salienti di Napoli-Juventus o di Juventus-Inter, vederle con loro e registrarn­e i commenti «live». Il confronto stimola, il consenso rammollisc­e.

A fine 2017 «catenaccio» continua a restare tabù. Da intensità a densità, da muro semovente a ostruzione sistematic­a delle linee di passaggio, da non si marca più a uomo a in che film. Per questo, il dizionario serve sempre.

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