MAZZOLA CITA DANTE E DICE ADDIO NEL DERBY
L’Italia era bollente e non soltanto perché il sole dell’estate mordeva e la gente boccheggiava. C’era la paura a rendere torrido quel periodo: la paura della crisi economica, delle P38, delle Brigate Rosse, dei rapimenti, degli studenti che invadevano le piazze , manifestavano e lanciavano bombe molotov contro i poliziotti. Era il 1977, l’anno che avrebbe dovuto portare la fantasia al potere e invece fu un disastro.
PERIODO NERO I terroristi miravano ai giornalisti, ai magistrati, agli avvocati. Azzoppavano, ferivano, uccidevano. La storia di quel periodo si faceva con il piombo delle pallottole. A Bologna, in marzo, per sgomberare le strade e ripristinare l’ordine, il governo mandò addirittura l’esercito e i carrarmati. E anche nel calcio, piccolo recinto di grandi emozioni, accadevano perlomeno due fatti straordinari. Il primo: la Juventus vinse la sua prima coppa europea, la coppa Uefa, nella doppia finale contro l’Athletic Bilbao. Il secondo: un uomo di nerazzurro vestito, baffi spioventi, occhi furbi e sorriso sincero, decise che dopo diciassette anni di carriera era giunto il momento di fermarsi.
PASSO D’ADDIO Basta, stop, fine: Sandro Mazzola si sfilava la maglia dell’Inter, chiudeva l’armadietto dello spogliatoio e usciva per sempre dal campo. Per il passo d’addio aveva scelto il teatro: San Siro, ovviamente. E l’avversario: il Milan del suo nemico Gianni Rivera. L’occasione era la finale di Coppa Italia, in programma il 3 luglio. I rossoneri venivano da una stagione travagliata, si erano salvati dalla retrocessione soltanto nelle ultime giornate grazie alla saggezza del Paròn Rocco, richiamato in servizio dopo il fallimento di Pippo Marchioro. L’Inter, mediocre anch’essa, sotto la guida di Beppe Chiappella aveva conquistato il quarto posto, si era qualificata per la Coppa Uefa e, per quella sfida di Coppa Italia, era strafavorita.
MALINCONIA A San Siro, in quella notte di luglio, i dolori della vita di tutti i giorni rimasero fuori. C’era da salutare Mazzola, c’era il derby, c’era la Coppa Italia da sollevare. Settantamila persone si diedero appuntamento per lo spettacolo: non il «tutto esaurito», ma quasi. Subito si avvertì una strana sensazione, era come se un velo di malinconia avesse imprigionato lo stadio, lo avesse avvolto, e chi era lì dentro non poteva che lasciarsi contagiare da quell’atmosfera. Il boato del pubblico accompagnò l’ingresso delle squadre: il Milan in rossonero, l’Inter in maglia bianca e pantaloncini neri. Rivera e Mazzola si strinsero le mani al centro del campo, sorrisero a beneficio dei fotografi, l’arbitro Gussoni lanciò in aria la monetina e si partì. II tecnico del Milan Nereo Rocco, che era all’ultima partita in panchina pure lui, aveva scelto una formazione battagliera: fuori Fabio Capello, in attacco Alberto Bigon, Egidio Calloni e Giorgio Braglia supportati dal genio di Ganni Rivera. Aveva promesso un regalo speciale ai tifosi, il Paròn: voleva il trofeo. Ma nonostante i piani tattici, le strategie e tutte quelle faccende lì, il gioco non decollava. Poche occasioni, pochi lampi, pochissimi, zero gol nel primo tempo. La verità è che per quarantacinque minuti allo stadio si fece fatica a non sbadigliare: chi aveva deciso di partire in anticipo per le vacanze, fino a quel momento non aveva avuto torto.
PALOMBELLA Durante l’intervallo gli spettatori cominciarono le solite discussioni sul futuro: i calciofili non amano mai parlare del presente, soprattutto quando non è gioioso. I milanisti pensavano al Barone Liedholm, che di lì a poco sarebbe arrivato sulla panchina, mentre gli interisti si interrogavano su Eugenio Bersellini, destinato a prendere il posto di Chiappella. Quelle chiacchiere erano un modo per distrarsi dal poco che si era visto sul campo. Soltanto un colpo di genio avrebbe potuto schiodare lo 0-0: uno scatto bruciante di Mazzola o un tocco raffinato di Rivera. Quest’ultimo fu più rapido del rivale: al 19’ del secondo tempo, s’inventò una palombella su punizione che scavalcò la barriera nerazzurra e finì sul piede destro di Maldera. Tiro al volo e gol. Mazzola guardò inferocito i compagni che si erano lasciati ingannare da una simile giocata, prese il pallone, lo portò al centro del campo e a testa bassa tentò un altro assalto. Ma non era proprio serata. A un minuto dal termine il sigillo rossonero di Braglia e la Coppa Italia finì nelle mani più milaniste che ci fossero: quelle di Rivera, che ancora una volta aveva rovinato la festa al nemico.
ADDIO Mentre avveniva la premiazione, Sandro Mazzola consegnava la sua maglia numero 10 a Aldo Maldera, che gliel’aveva chiesta prima della partita, e a petto nudo si avviava per l’ultima volta verso gli spogliatoi di San Siro, la sua casa, dopo 565 partite in maglia nerazzurra e 160 gol, dall’esordio del 10 giugno 1961 a quella sera. Lo intercettò Beppe Viola che gli mise il microfono davanti alla bocca e gli chiese se davvero quella fosse stata l’ultima fatica. «Vuolsi così colà dove si puote...» rispose Mazzola alzando gli occhi al cielo. Sono le parole che Virgilio, nella Divina Commedia, indirizza ai dannati per fare strada a Dante: fu l’ultimo dribbling di Sandro Mazzola, un guizzo d’autore, una saetta nel cuore. O forse una polemica per un arbitraggio che non gli era piaciuto. E gli avversari furono spiazzati. Per sempre.
1977 COPPA ITALIA ANCHE ALLORA. VINSE E FECE FESTA IL MILAN DI RIVERA. IL BAFFO SALUTÒ «VUOLSI COSÌ COLÀ DOVE SI PUOTE...»