QUANDO L’ALPINISMO DIVENTA CULTURA
L’alpinismo non è soltanto un’attività sportiva. È anche un’attività culturale. Questo è ciò che più conta per me ed è il motivo per il quale ho deciso di intraprendere una nuova vita: quella di regista cinematografico. Per raccontare con i miei film storie vere. Senza aggiungere invenzioni: mostrando i fatti ed evitando di esprimere giudizi. Ho sempre detestato i film hollywoodiani, che non fanno mai a meno di contrapporre buoni e cattivi. Le storie di alpinismo e di avventura le ho raccontate in passato con i libri o nelle conferenze-spettacolo. Ora ci provo con le immagini, ma sempre come uno storyteller.
Sono onorato che il mio primo film, «Still Alive. Dramma sul Monte Kenya», abbia inaugurato la nuova collana di DVD di alpinismo di questo giornale. È una bellissima storia. Non l’ho vissuta io, ma la conoscevo bene perché, subito dopo i fatti, l’ho appresa dai due protagonisti, entrambi medici, divenuti poi miei amici e compagni di scalate. Nel 1970 Gert Judmaier, vittima di una drammatica caduta a oltre 5000 metri di quota dopo aver scalato il Mount Kenya, venne ricoverato a Innsbruck per curare le gravi fratture a una gamba. Finì proprio nella camera dove ero ricoverato io per la riabilitazione, dopo i congelamenti ai piedi sul Nanga Parbat. E a far visita a Gert veniva sempre Oswald «Bulle» Oelz, che lo aveva aiutato e assistito nella interminabile lotta per la sopravvivenza.
Non ho paura di svelare la trama, visto che la storia la raccontano i due veri protagonisti. Che, nelle scene ricostruite proprio nei luoghi dove si svolse il dramma, sono interpretati dai fratelli Hansjörg e Vitus Auer. Perché soltanto degli alpinisti veri possono essere credibili nelle scene in parete.