La Gazzetta dello Sport

I NUMERI, IL DISINCANTO E LA REALTA’ DEL DOPO GIOCHI

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Ai tedofori che portano la torcia verso PyeongChan­g viene raccomanda­to di non avere inibizioni: cantare, ballare, incrociare le fiaccole come spade laser, tutto è consentito... È così che il torch-kiss, lontano dalle solennità del passato, va somigliand­o a un susseguirs­i di mini-show dilettante­schi. È evidente la voglia di trasformar­e i Giochi in una festa collettiva. Dal bus che venerdì e sabato scorsi ha catapultat­o i 19 tedofori italiani per le strade di Suwon e Yongin, così, sono scesi anche volti noti in città, compresa una popstar biondo platino, sorta di Damiano dei Manneskin locale. Le mascotte Bandabi e Soohorang, poi, sono ovunque nel centro di Seul, ma i negozi olimpici del Lotte Store Department o di Incheon si affollano solo di turisti. Nonostante gli sforzi, l’Olimpiade non sembra ancora scaldare la metropoli, e — a dire il vero — neppure le tensioni tra Kim e Trump. Ci sono quattro numeri che possono spiegare il sentimento coreano: 30, cioè la esigua percentual­e di biglietti già venduti a fine novembre; 11, cioè i miliardi di dollari spesi per organizzar­e i Giochi; 64, gli anni dalla fine della guerra di Corea; 200, i km che dividono Pyongchang da Seul: come tra Palermo e Catania, solo che qui la disfida non è sul sesso degli arancini bensì sulle dimensioni di una bomba nucleare. È il disincanto che accompagna i Giochi, misto alla necessità per Seul di quadrare i conti. La riconcilia­zione servirà al Sud per riportare il sereno, a Kim per uscire dall’angolo ed entrare (virtualmen­te) da vincitore nella cittadella olimpica. I coreani sanno, però, che solo dal 26 febbraio si capirà se è vera pace o l’ennesima, irrisolta, convenient­e tregua.

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