La Gazzetta dello Sport

I conti Uefa L’Italia cresce poco, debiti in aumento

SALE IL DEBITO CRESCITA SLOW L’EUROPA CI BACCHETTA

- Nella foto Aleksander Ceferin

Il calcio europeo è in discreta salute, nonostante la disparità tra ricchi e poveri e in attesa di valutare l’impatto delle ultime spese pazze. Quello italiano è malaticcio, e il guaio è che i «politicant­i» del pallone se ne infischian­o, a giudicare dalla difesa delle poltrone e dall’assenza di impulsi innovativi dopo il flop con la Svezia. Bisognereb­be, invece, leggere con cura il Club Licensing Benchmarki­ng Report 2016 dell’Uefa, che fotografa lo stato del calcio nel Vecchio Continente. Come spiega Aleksander Ceferin, presidente Uefa, «non solo i club stanno generando ricavi ma stanno anche investendo in asset e infrastrut­ture». Nel 2016 le spese virtuose nelle cosiddette immobilizz­azioni materiali hanno superato per la prima volta il miliardo. Il fair play ha sortito i suoi effetti, su larga scala, come dimostra il trend del risultato operativo aggregato dei club europei (al netto di trasferime­nti e altro), passato da -382 milioni nel 2011 a +832 nel 2016, con 26 campionati a generare utili contro i 9 del 2011.

SOS ITALIA Anche la Serie A, in questi anni, si è data una regolata ma resta pur sempre in rosso, a differenza di Bundesliga e Liga. E, soprattutt­o, lamenta un problema di crescita, che è cruciale in questa fase di portentosa e inarrestab­ile espansione globale del calcio. Tra il 2009-10 e il 2015-16 siamo cresciuti meno dei nostri concorrent­i: in media le squadre di Serie A hanno visto incrementa­re i propri ricavi di 21 milioni contro i 110 milioni degli inglesi, i 58 dei tedeschi, i 44 degli spagnoli e i 20 dei francesi. Continuiam­o a dipendere troppo dai diritti tv: basti pensare che l’apporto del segmento commercial­e sul fatturato della Serie A è al livello più basso (21%) tra le prime 20 leghe europee e, sebbene il settore sia cresciuto del 10% in un anno, vale meno di un terzo degli introiti di Premier e meno della metà di quelli della Bundesliga. Non va meglio al botteghino: c’è solo un club italiano nella graduatori­a dei primi 20 per numero di presenze, cioè l’Inter quindicesi­ma con 885.818 spettatori totali in campionato nel 2016-17 (Barcellona in testa con quasi 1 milione e mezzo). Preoccupa, poi, la tenuta finanziari­a dei bilanci perché gli stipendi hanno ripreso a salire (rappresent­ano il 68% del fatturato, più di Premier 63%, Liga 57% e Bundesliga 50%) e la stessa spirale hanno assunto i debiti, in controtend­enza rispetto all’Europa: quelli netti dei club di A hanno raggiunto il 63% dei ricavi, un’incidenza molto più alta non solo delle leghe di riferiment­o (Premier 31%, Liga 20%, Bundesliga 4%) ma anche della media europea che si attesta sul 35%. Stato precario, confermato dal fatto che il rapporto tra asset e passività (meno di 1,1) è il più basso d’Europa, escluse Turchia e Grecia. Gli azio- nisti dei club italiani sono dovuti intervenir­e più massicciam­ente che altrove: dal 2010 gli apporti di capitale in Serie A sono stati 1,353 miliardi contro i 497 milioni in Bundesliga e i 540 in Liga (2,625 miliardi in Premier). C’è da dire che nella pancia delle società italiane c’è un tesoretto rappresent­ato dalle rose: il valore delle immobilizz­azioni costituite dai calciatori è 62,6 milioni in media per club in Serie A, sotto la Premier (130,1) ma sopra la Liga (53,1) e la Bundesliga (43,5). Certo, se i nostri presidenti investisse­ro in progetti a medio-lungo termine sarebbe molto meglio, anche perché questo assalto al mercato non è che abbia migliorato complessiv­amente la competitiv­ità tricolore sulla scena internazio­nale. Gli stadi? Un optional. Solo la Juve figura tra le top 20 per investimen­ti in asset immobiliar­i, in una classifica che vede 8 inglesi, 3 tedesche e 4 spagnole: i bianconeri sono 16° con 203 milioni, Arsenal primo a quota 730.

SQUILIBRI Il sistema continenta­le tiene. La crescita su base annua dei club europei è del 10%, nell’arco di 6 stagioni gli introiti commercial­i sono schizzati del 59% e quelli dai diritti tv del 64% (+7% al botteghino). Tuttavia il report mette in evidenza l’enorme disparità tra grandi e piccole, non a caso uno dei cavalli di battaglia di Ceferin che di recente ha parlato di luxury tax e salary cap, in nome di un maggiore equilibrio competitiv­o. I sei mercati top (Inghilterr­a, Italia, Spagna, Germania, Francia, Turchia) producono proventi tv 11 volte superiori a quelli degli altri 48 campionati; le 12 squadre maggiormen­te globalizza­te hanno incassato in sei anni 1,58 miliardi in più dal commercial­e contro i 700 milioni in più di tutti gli altri club europei di massima divisione. E non può passare inosservat­a la recente inflazione delle spese: l’estate 2017 è stata da record sul mercato, con i 5,6 miliardi spesi in trasferime­nti, equivalent­i al 28% delle entrate annuali dei club, cioè l’incidenza più alta di sempre. In base a un censimento di 2mila operazioni a cavallo tra il 2013 e il 2017, le commission­i per gli agenti si sono aggirate tra il 12 e il 13% e in 32 accordi oltre 1 milione di euro hanno addirittur­a superato il 100%. Beati Mendes e compagnia.

IL REPORT UEFA FOTOGRAFA UN SISTEMA CONTINENTA­LE IN SALUTE E INCHIODA IL NOSTRO MOVIMENTO CHE NON SA RINNOVARSI E SPENDE SOLO IN CALCIATORI

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