LE SAUDITE, IL BEACH E TEX LO «SPORTIVO»
Lettere alla Gazzetta
Gazzetta e Tex: siete riusciti a riunificare due grandi amori di carta della mia vita. E a questo punto le chiedo: il nostro indistruttibile eroe bonelliano sarebbe stato un grande decathleta, come minimo, giusto?
Alberto Ghedi
Lei mi spinge su un ottovolante con una delle lettere più «pazze» che abbia ricevuto. Ma non scendo dalla giostra, anche perché a mia volta sono amico di Tex fin da quando ero un adolescente. Onestamente in quell’imprecisata frazione dell’Ottocento, di sport quasi non si parlava. Tanto meno nel selvaggio West. Anche se sull’altra costa si giocava a baseball fin dal 1846, come testimoniano alcuni preziosi dagherrotipi (allora le fotografie si chiamavano così). E anche i precursori del football si stavano per mettere in marcia. Ma il nostro Tex presumibilmente non ha mai fatto nulla di sportivo, salvo che competere da giovane con i suoi amati Navajos (spogliandosi degli stivali col tacchetto, naturalmente). Per rimanere insieme a lei e alla sua idea senza far ricoverare entrambi, mi ancoro al rapporto col cavallo. Sapete che da quell’ambiente, soprattutto di lavoro, ha origine la cosiddetta «monta western», del tutto diversa da quella all’inglese. Le differenze sostanziali sono grandi e comode (talvolta anche costosissime) selle, staffe lunghe, conduzioni delle redini a una mano sola: tutto funzionale al lavoro del cowboy e alla comodità degli spostamenti. Tex è un cavaliere sopraffino, come lo erano i John Wayne e i William Holden nell’interpretare i western un secolo dopo. Deluderò qualcuno, ma le furibonde galoppate di carriera erano eventi eccezionali e non potevano durare a quei ritmi che una manciata di minuti. Tex si spostava al passo sul suo cavallo. Ma a quella velocità è entrato nel mito. Da sportiva e da donna ho esultato nel leggere che il pubblico femminile è stato finalmente ammesso negli stadi sauditi. Quanto strada devono fare ancora in quei Paesi! E anche da noi qualche attenzione la porrei ancora e sempre all’uso strumentale del corpo della donna. Anche nello sport: io non sono bacchettona, ma mi spiegate perché nel beach volley, per esempio, le donne giocano seminude e gli uomini stracoperti?
Caterina Fuochi
Anche la sua lettera mi chiede qualche acrobazia, ma l’argomento è affascinante. La condizione della donna è il primo indicatore del grado di sviluppo e progresso di un Paese, al di là delle differenze culturali e religiose. Ogni piccolo passo avanti verso una reale parità è una conquista autentica dell’umanità. E anche la nostra società, che pure molti passi avanti ha fatto su questo terreno, ha davanti a sé un lavoro intenso. Mi viene in mente una bella frase della scrittrice Dacia Maraini: «Mentre all’uomo si chiede di parlare secondo competenza e talento, alla donna si chiede di parlare col corpo». Nello sport ogni forma di voyeurismo e di ammiccamento è deludente. La sua domanda è ben posta: la sabbia è la stessa, il caldo pure, lo sforzo idem. Però le beacher sono tutte in due pezzi e gli uomini bardati con magliettone e bragoni. Poiché non sono turbato dalla vista di un’atleta in due pezzi, per di più in un contesto spesso balneare, mi augurerei che qualche centimetro in più di pettorali o di gambe gli uomini la mostrassero. Solo per non far venire brutti pensieri, naturalmente. Scendendo un’infinità di gradini verso l’inciviltà, rabbrividiamo tutti per l’enorme portata dello scandalo del medico della ginnastica Usa, Larry Nassar, accusato, ora anche dalla fortissima Simone Biles, di «comportamenti inaccettabili, disgustosi e violenti». Eppure siamo molto lontani da quei Paesi che teorizzano tutt’ora una medioevale inferiorità della donna.