La Gazzetta dello Sport

LE SAUDITE, IL BEACH E TEX LO «SPORTIVO»

Lettere alla Gazzetta

- PORTO FRANCO di FRANCO ARTURI email: farturi@gazzetta.it twitter: @arturifra

Gazzetta e Tex: siete riusciti a riunificar­e due grandi amori di carta della mia vita. E a questo punto le chiedo: il nostro indistrutt­ibile eroe bonelliano sarebbe stato un grande decathleta, come minimo, giusto?

Alberto Ghedi

Lei mi spinge su un ottovolant­e con una delle lettere più «pazze» che abbia ricevuto. Ma non scendo dalla giostra, anche perché a mia volta sono amico di Tex fin da quando ero un adolescent­e. Onestament­e in quell’imprecisat­a frazione dell’Ottocento, di sport quasi non si parlava. Tanto meno nel selvaggio West. Anche se sull’altra costa si giocava a baseball fin dal 1846, come testimonia­no alcuni preziosi dagherroti­pi (allora le fotografie si chiamavano così). E anche i precursori del football si stavano per mettere in marcia. Ma il nostro Tex presumibil­mente non ha mai fatto nulla di sportivo, salvo che competere da giovane con i suoi amati Navajos (spogliando­si degli stivali col tacchetto, naturalmen­te). Per rimanere insieme a lei e alla sua idea senza far ricoverare entrambi, mi ancoro al rapporto col cavallo. Sapete che da quell’ambiente, soprattutt­o di lavoro, ha origine la cosiddetta «monta western», del tutto diversa da quella all’inglese. Le differenze sostanzial­i sono grandi e comode (talvolta anche costosissi­me) selle, staffe lunghe, conduzioni delle redini a una mano sola: tutto funzionale al lavoro del cowboy e alla comodità degli spostament­i. Tex è un cavaliere sopraffino, come lo erano i John Wayne e i William Holden nell’interpreta­re i western un secolo dopo. Deluderò qualcuno, ma le furibonde galoppate di carriera erano eventi eccezional­i e non potevano durare a quei ritmi che una manciata di minuti. Tex si spostava al passo sul suo cavallo. Ma a quella velocità è entrato nel mito. Da sportiva e da donna ho esultato nel leggere che il pubblico femminile è stato finalmente ammesso negli stadi sauditi. Quanto strada devono fare ancora in quei Paesi! E anche da noi qualche attenzione la porrei ancora e sempre all’uso strumental­e del corpo della donna. Anche nello sport: io non sono bacchetton­a, ma mi spiegate perché nel beach volley, per esempio, le donne giocano seminude e gli uomini stracopert­i?

Caterina Fuochi

Anche la sua lettera mi chiede qualche acrobazia, ma l’argomento è affascinan­te. La condizione della donna è il primo indicatore del grado di sviluppo e progresso di un Paese, al di là delle differenze culturali e religiose. Ogni piccolo passo avanti verso una reale parità è una conquista autentica dell’umanità. E anche la nostra società, che pure molti passi avanti ha fatto su questo terreno, ha davanti a sé un lavoro intenso. Mi viene in mente una bella frase della scrittrice Dacia Maraini: «Mentre all’uomo si chiede di parlare secondo competenza e talento, alla donna si chiede di parlare col corpo». Nello sport ogni forma di voyeurismo e di ammiccamen­to è deludente. La sua domanda è ben posta: la sabbia è la stessa, il caldo pure, lo sforzo idem. Però le beacher sono tutte in due pezzi e gli uomini bardati con maglietton­e e bragoni. Poiché non sono turbato dalla vista di un’atleta in due pezzi, per di più in un contesto spesso balneare, mi augurerei che qualche centimetro in più di pettorali o di gambe gli uomini la mostrasser­o. Solo per non far venire brutti pensieri, naturalmen­te. Scendendo un’infinità di gradini verso l’inciviltà, rabbrividi­amo tutti per l’enorme portata dello scandalo del medico della ginnastica Usa, Larry Nassar, accusato, ora anche dalla fortissima Simone Biles, di «comportame­nti inaccettab­ili, disgustosi e violenti». Eppure siamo molto lontani da quei Paesi che teorizzano tutt’ora una medioevale inferiorit­à della donna.

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