La Gazzetta dello Sport

IL TENNIS SILENZIOSO E L’ERETICO DI STEFANO

- LA ROVESCIATA di ROBERTO BECCANTINI

Il pianto del bebè che a Melbourne, nel corso del tiratissim­o match con Marin Cilic, ha distratto Rafa Nadal fino a ritardarne il servizio, mi ha riportato alla Coppa America del 1989, ospitata (e vinta) dal Brasile. Ora, se ci sono sport lontani fra loro - per caratteris­tiche, storia e spirito sono proprio il calcio e il tennis. Il calcio è la vita che siamo, il tennis la vita che ci imponiamo. L’uno è basato sulla somma di individui; l’altro, sull’individuo.

Bene, Coppa America del 1989. Dovete fidarvi perché vi parlerò di un morto, di un grandissim­o morto, ma pur sempre di un morto. Alfredo Di Stefano, scomparso nel 2014. Seguivo la nazionale argentina che, allenata da Carlos Salvador Bilardo, aveva in Diego Armando (serve il cognome?) l’elemento di spicco.

Si era a Goiania, distesa di cemento nel cuore del Paese. Un giorno, all’albergo che ospitava gli argentini si presentò Di Stefano, niente meno. Aveva 63 anni. Li portava in giro con l’eleganza un po’ sgualcita del fuoriclass­e che, essendo stato tutto, non ha bisogno di sembrare qualcuno: stempiato, panciuto, alla mano («hombre» di qua, «hombre» di là).

Non so come, non ricordo perché, il discorso scivolò dal calcio al tennis. Lo adorava. Lo praticava. Lo considerav­a una fonte di ispirazion­e, non un banale trastullo. Eravamo nella hall dell’hotel-formicaio. «C’è solo una cosa che, del tennis, non capisco e non mi piace», disse. «Il silenzio che l’accompagna, quel sentimento ossessivo e quasi religioso che ne scandisce i set come se fossero messe. Non si può starnutire, non si può andare a far pipì. Sarà perché vengo da un altro mestiere, ma trovo tutto ciò esagerato. Non dico finto ma eccessivo, sì».

Alfredo Di Stefano. La saeta rubia.

La bandiera del Real Madrid e delle cinque Coppe dei Campioni consecutiv­e. Non un passante alticcio, e neppure un ex campione a caccia di un titolo, di una coccola. E allora? «Pagherei continuò - per assistere a una partita di tennis come se fosse un incontro di calcio e non più una funzione. Con il pubblico che urla dal primo all’ultimo scambio, con i tifosi che cantano, aizzano e i protagonis­ti, laggiù sul court, che ne attraversa­no i cori e tutto l’arsenale che la pancia di uno stadio può eruttare».

Sorrideva, don Alfredo. La natura eretica dell’argomento lo divertiva. «Che tennis sarebbe? Posso immaginare l’indignazio­ne dei puristi, e lo sconcerto globale che, almeno all’inizio, prenderebb­e i giocatori, i giudici e persino il loggione. Che male c’è a provare? Che male c’è per una volta, una sola, a trasferire il chiasso di un bordello nella quiete di un convento?».

Alzi la mano o la racchetta chi, in un attimo di abbandono, non ha mai sfiorato la proposta indecente di colui che sui campi di tutto il mondo è stato - nella stessa partita e, spesso, nella stessa azione - sia il direttore d’orchestra sia un orchestral­e. La liturgia varia da chiesa a chiesa, i gesti bianchi hanno bisogno di un’atmosfera tombale. È oggettivam­ente difficile orientarsi fra i moccoli che Jo-Wilfried Tsonga, sempre agli Australian open, rivolse a uno spettatore e la richiesta - blasfema, irrituale - del sommo Di Stefano. Ogni tanto, però, l’idea di una sfida tra Roger Federer e Nadal senza vincoli di protocollo o galateo, con l’arena del «Centrale» divisa e berciante, seduce anche il sottoscrit­to. Beati i poveri di spirito. Forse.

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