BORINI: «MILAN, SONO IL KILLER DEI RIGORI»
«LA PREMIER MI HA FATTO CRESCERE, COI ROSSONERI POSSIAMO TRIONFARE IN EUROPA E COPPA ITALIA E PUNTO A NON ESSERE PIÙ SNOBBATO IN AZZURRO»
PER PRIMA COSA LI GUARDO NEGLI OCCHI PER CAPIRE COME SONO
FABIO BORINI
OLTRE LA MANICA «A Londra sono cresciuto, ritorno per prendermi delle rivincite»
«Vorrei trasmettere il modo di vivere la gara degli inglesi. Da noi è troppo serio»
HO PRESO DA MIA MAMMA CINZIA CHE HA CORSO LA CENTO CHILOMETRI
FABIO BORINI SULLA SUA CORSA SUI SUOI ALLENATORI
«Prima semifinale e poi finale. Alto, fuori, addosso al portiere: calciai tre rigori e li sbagliai tutti, ma il mio primo allenatore, Stefano Roncasaglia, mi rimandava sempre sul dischetto a tirarli. Quel torneo lì, il Tassi, non lo abbiamo vinto, ma a me, che ero un ragazzino, quella lezione mi è rimasta dentro». Abbiamo la confessione: prima di diventare un prezioso jolly del Milan, Fabio Borini è stato un serial killer di rigori. Sarà per questo che il libro scelto per raccontarsi – «Niente di vero tranne gli occhi» di Giorgio Faletti – utilizza omicidi efferati per descrivere il cuore di tenebra del mondo.
Perché questo libro?
«Faletti è il mio scrittore preferito. Ho scelto questo perché, a parte la “suspence”, si concentra sugli occhi, che per me sono fondamentali nella comunicazione. Anche gli allenatori: la prima cosa che faccio è guardarli negli occhi per capire come sono».
Allora com’è stata la prima volta con Montella e Gattuso?
Ride. «Diversa, ma dagli occhi
non sono mai riuscito a capire se un allenatore mi avrebbe fatto giocare. Ci sono troppi fattori esterni. Guardi che io sono un iper-razionale e lo dimostro anche nei tatuaggi. Ad esempio, ho il Grillo Parlante di Pinocchio perché voglio una coscienza vigile. Poi c’è anche un Peter Pan con la maglia numero 29 perché desidero mantenere sempre le mie idee, e inoltre ho il mio nome scritto in cirillico».
Perché proprio in cirillico?
«Perché quando ero piccolo in estate prendevamo in affido un bambino bielorusso della zona di Chernobyl, Andrej. Quando col Liverpool sono andato a giocare a Homel l’ho contattato ed è stata una bella emozione rivederlo. Andrej voleva diventare medico e ce l’ha fatta. Certo però che a giocare a pallone era proprio scarso...».
Lei invece è bravo e sopratutto corre tanto.
«Le dico una cosa: nella colonia estiva non potevo giocare a pallone e così, quando tornavo, avevo così desiderio di calcio che per prima cosa mi mettevo da solo a correre da solo da una porta all’altra. Sei, sette, dieci volte, senza fermarmi mai. Avrò preso da mia mamma Cinzia, che ha corso la “cento chilometri” sia nel Sahara che in Islanda».
Più che una scelta alla Forrest Gump, la sua pare una spiccata propensione al sacrificio.
«Non creda, solo in partita. Da ragazzo in allenamento avevo poca voglia e così capitava che l’allenatore mi spedisse nello spogliatoio per punizione».
A 16 anni poi la scelta del Chelsea: ansia?
«Per decidere non ho dormito per settimane. Una volta che sono partito però, quando tre mesi dopo mi è presa nostalgia di casa – non sapevo neppure l’inglese – i miei mi hanno detto di non mollare e hanno fatto bene. Vivere in Inghilterra da solo mi ha fatto crescere. Stavo in famiglia, da Keith Carnes, un londinese separato, che abitava in una grande casa dove ho cominciato a cucinare usando gli appunti dei nutrizionisti del Chelsea. Sono stato bene con Keith e le sue tre figlie».
Ovviamente tutte si sono innamorate di lei.
«Ovviamente, ma in modo fraterno».
Che differenza c’è tra uno spogliatoio inglese e uno italiano?
«Da loro si passa più tempo a lavorare che a chiacchierare. In Italia si sta più insieme, lì invece lo spogliatoio è quasi sempre vuoto. Io infatti, abituato diversamente, ci sto poco. Mi piacerebbe trasmettere il modo di approcciarsi alla partita che hanno in Premier. Qui da noi è troppo serio, pesante».
Il rapporto con gli allenatori?
«Diverso. Non puoi andare da un tecnico e chiedere: “Come mai non mi fai giocare?”. A loro non piace, se lo fai non giochi più perché lo hai messo in discussione. Da noi puoi essere più diretto».
Faletti tratteggia fra i vip un sottobosco inquietante: nel calcio è così sia qui che in Premier?
«Simile, ma bisogna stare più attenti qui. In Italia provano a sfruttare di più la nostra immagine, in Inghilterra c’è meno interesse a quello che fai. Qui, ad esempio, se esci la sera bisogna sempre avere il tavolo più bello, da loro se vai fuori sei uno normale. Secondo me è meglio, perché così non perdi il contatto con la realtà».
Lei in Italia ha avuto Luis Enrique: che ricordi ne ha?
«Mi pareva straordinario. Lui guardava prima la persona, poi il nome sulla maglia. La prima volta che lo incontrai mi disse: “Tu sei giovane, ma io faccio giocare chi lavora meglio”».
A proposito, dicono che a Roma lei fosse isolato. Non la invitarono neanche a una cena di squadra, si disse.
«Ma no, era organizzata in tempi brevi e io avevo la mia famiglia lì. Diciamo che avevo un rapporto normale. Avevo 21 anni, venivo dall’estero. Relazionarsi con De Rossi e Totti, che lì erano intoccabili, è stato diverso che farlo con Terry e Drogba, che sono più alla mano. In Inghilterra si tende a essere più normali».
Nel libro c’è Lysa, un personaggio androgino. Nella cultura britannica c’è più spazio per la diversità?
«Forse in generale c’è più comprensione. Le faccio un esempio. Livermore – ora al West Bromwich – era stato squalificato per cocaina, ma quando la Federazione seppe che aveva appena perso il figlio ed era caduto in depressione, ha cancellato la sanzione. Da noi non sarebbe successo».
Per non costruire un idillio inglese, quando lei ha sposato Erin, i tabloid hanno ironizzato che una ragazza tanto bella sposasse...
“...il più bel calciatore italiano (ride, ndr). Ma non ci sono rimasto male. So il rapporto che abbiamo. E sono fortunato che sia straniera».
Una volta, però, il non bellissimo Crouch disse che, se non fosse stato un calciatore, non avrebbe mai fatto sesso: c’è della verità?
«Certo, perché qualsiasi calciatore può attirare».
Nel libro si parla di vendetta. Nel calcio si chiamano rivincite: le sue?
«Anche solo il fatto di essere venuto al Milan dopo è una rivalsa perché ho sempre creduto in me. Ma ce ne sono altre da prendermi, e poi a me piace sempre vincere. Pensi che da piccolo baravo anche ai giochi pur di riuscirci».
Faletti fece fatica a farsi accettare nel salotto buono della letteratura. Nonostante l’Europeo 2012, in Nazionale è successo così anche a lei?
«Nessuno sa che ho partecipato a quell’Europeo; forse neppure loro. Non mi sono mai scaldato durante una partita, Prandelli non mi ha mai parlato. La Nazionale non mi ha mai considerato ed è anche per questo che sono tornato in Italia».
Nell’azzurro ci spera anche Balotelli, che una volta ha detto che vorrebbe essere come lei.
«Sono amico di Mario. Potenzialmente è tra i più forti che io abbia mai visto. Con lui o sei diretto o le cose non vanno. L’amicizia è una cosa seria, che rimane. Pensi che fino a poco tempo fa, quando tornavo al paese, la notte mi mettevo a giocare a calcio con gli amici nel parcheggio vicino a casa mia come quando eravamo piccoli».
Nel libro si parla di occhi altrui trapiantati che fanno vedere il mondo diversamente: un giorno vedrà il calcio con quelli di Gattuso o di Montella?
«Quelli di Gattuso, forse».
Mai pensato: «Che sfiga essere venuto al Milan proprio adesso»?
«No, anzi meglio, perché è tutto da costruire. Secondo me non c’è migliore opportunità».
Se il campionato fosse un giallo, chi sarebbe l’assassino che fa fuori tutti e vince?
«Per me la Juve».
E in Europa League?
«Direi il Milan, ce la possiamo fare. E così anche in Coppa Italia».
Se Gattuso e Montella fossero due detective, chi è più da intuizione fulminante e chi da rigore metodologico?
«Gattuso sarebbe quello più umano, più psicologo; Montella invece più investigatore alla ricerca di prove».
E se Gattuso le chiedesse di tirare un rigore, lo calcia?
«Scherza? Certo. Da quella volta che li sbagliai tutti mi sono allenato bene e ora faccio sempre gol».
Avviso alla centrale: il serial killer del dischetto non esiste più.