STORICA CERIMONIA GIOCHI DI PACE
Due atlete, una per Paese, hanno portato la fiaccola al braciere olimpico Il Presidente della Corea del Sud dà la mano alla sorella del dittatore Kim Jong-un
Riesce alla pelle d’oca l’impresa che il kit anti-freddo distribuito a tutti gli spettatori fallisce: per almeno un attimo non sentiamo il morso delle ore passate a sei-sette gradi sotto zero. Succede quando i 35mila dello stadio a pentagono di PyeongChang capiscono che sta arrivando la bandiera bianca con qualcosa di blu sopra. Il qualcosa di blu è la penisola, quasi un disegno di un bambino, la Corea che per una sera è una e «unificata», insieme Nord e Sud, invitata a cena dall’Olimpiade invernale. Si avverte come un tuffo al cuore e ti imponi di non crederci troppo perché la retorica è una brutta bestia e perché anche lo sport si iscrive anche lui spesso e volentieri alla gara delle illusioni. Ma dura un niente, chi se ne importa, lasciateci credere che la «pace sia davvero in movimento», che Nelson Mandela avesse proprio ragione dicendo «lo sport può cambiare il mondo», che i cinque bambini pifferai magici della cerimonia di apertura possano ritrovarsi fra qualche anno raccontandosi: noi c’eravamo. C’eravamo quando un’esibizione di atleti del Nord e del Sud ha ricordato che il taekwondo è nato qui e guai a chi lo tocca. Quando il bobista Won Yun-jong (del Sud) e la giocatrice di hockey ghiaccio Hawang Chung-kum (del Nord) hanno retto insieme quella bandiera così semplice, così ingenua, così piena di significato. Quando altre due ragazze, una del Nord (Chung Su-hyon) e una del Sud (Park Jong-ah), della squadra di hockey «unificata» hanno consegnato a Yu-na Kim, l’ex grande rivale di Carolina Kostner, la fiaccola con cui la pattinatrice, ultimo tedoforo, ha acceso il braciere olimpico.
DIALOGO Nella tribuna dei presidenti, dei premier, dei re e dei principi, intanto succede qualcosa. Moon Jae-in, il presidente innovatore della Corea del Sud, ha già preso la sua strada: dialogo, dialogo e ancora dialogo. Arriva, si volta e incrocia subito un abbozzo di sorriso di Kim Yojong, la sorella del dittatore rimasto a casa. Una stretta di mano cordiale, senza imbarazzi. Quelli che il vice di Trump, Mike Pence, ha voluto evitare lasciando la sua sedia vuota al ricevimento pre-cerimonia, tanto per evitare incontri che avrebbero smentito i toni e la politica del suo capo. Forse Yo-jong porta un messaggio del fratello, forse c’è anche una data per un invito ufficiale: vediamoci a Pyongyang (quella senza la e il ch al posto della y, la capitale della Corea del Nord). I Giochi avranno già proiettato allora sullo schermo il tradizionale see you in Bejing 2022 e forse sapremo di più di questa serata e delle sue conseguenze. Lo sapranno anche i coreani di dentro e magari pure quelli di fuori, che fuori dallo stadio hanno protestato per quella bandiera messa da parte a vantaggio del drappo bianco e blu e per l’inno nazionale che ha dovuto dividere la ribalta con un vecchio motivo del folclore coreano, di quando si stava ancora insieme, magari per combattere l’invasore giapponese (non a caso, c’è stato qualche fischio alla presentazione della squadra nipponica).
PIUMINI Però in quel momento, almeno in quel momento, i dubbi vengono cacciati dallo stadio, gli occhi sono tutti sui 219 piumini bianchi, 46 sono quelli indossati dai nordcoreani. Anche la volontaria che ha ballato per tutta la sera fra un’indicazione e l’altra da dare, si ferma: è rapita da qualcosa. E chissà che cosa pensano, lassù, nello spicchio di spalti più in alto, all’opposto della tribuna dei capi, le cheerleaders tutte rosse, l’«armata della bellezza» come la chiama il dittatore: c’è qualcosa di inquietante nel loro muoversi tutte insieme come una sola persona, eppure anche dentro di loro deve esserci una speranza. La speranza. Thomas Bach, il numero uno del Cio, grande tessitore del ribaltone diplomatico (a cui ha dato un contributo fra gli altri anche Mario Pescante) che ha trasformato il «rimaniamo a casa» in un «va bene, arriviamo», parte da questa parola. «La squadra dei rifugiati a Rio diede un potente segnale di speranza. La sfilata della Corea unificata è un potente segnale di pace». Pace: una cosa serissima perché vuole scongiurare un pericolo. Pericolo che a volte, succede anche questo, confina con la burla, quando vengono fermati due sosia di Trump e di Kim Jong-un.
VOLTI E COLORI La storia delle due Coree si prende tutto. La cerimonia del record dell’utilizzo
PRO E CONTRO
Sul palco storica stretta di mano tra Moon e la sorella del dittatore Kim
Ma fuori dallo stadio c’è chi protesta per la bandiera messa da parte
dei droni e delle 1070 telecamere, la Corea di una volta e quella di oggi, ultraconnessa e ultradigitale. E anche lei, la nostra Arianna Fontana, orgogliosa nel suo portare la bandiera, pronta a mettersi quei colori addosso anche quando scenderà in pista già oggi nel suo short track. «Con la bandiera in mano nessuna paura». E le sciarpe bianche dei russi, dei russi che non si chiamano Russia ma «atleti olimpici della Russia», quanta roba è successa dall’Olimpiade ultramiliardaria di Putin e i tanti scandali doping che l’hanno seguita. E il solito uomo di Tonga, mister Pita Taufatofua, che dopo aver conquistato il Maracanà due anni fa ora replica – a torso nudo! – portando la bandiera del suo Paese e lasciando il dobok del taekwondo per scegliere gli sci del fondo. E pure il nostro vecchio nemico Ahn, anche per lui un po’ di percorso della fiaccola, quello del Perugia, ma soprattutto del 2-1 che ci eliminò al Mondiale di calcio disputato da queste parti nel 2002.
LENNON Non c’è niente da fare, si ritorna subito a pensare a loro, al Nord e al Sud. Anche «Imagine», suonata pure a Torino 12 anni fa e oggi cantata mentre le figure in campo disegnano una colomba della pace che a un certo punto si trasforma ricordandoci il fascino del golfo di Napoli, asseconda il copione. Intanto tornano in scena i cinque bambini, cinque come i cerchi olimpi- ci, cinque come i continenti. Sono loro il futuro. E futuro fa venire in mente un articolo che Pier Paolo Pasolini scrisse nel 1960, commentando la cerimonia di apertura dell’Olimpiade di Roma. Raccontava un’epoca di grandi cambiamenti, le tante dichiarazioni di indipendenza di molti Paesi, l’Africa che piantava radici nella geografia politica e sportiva (quindici giorni dopo, Abebe Bikila avrebbe vinto la maratona). L’articolo si intitolava appunto: «Un mondo pieno di futuro». Oggi futuro, parliamoci chiaro, è una parola che si fa fatica a pronunciare. Forse il mondo di PyeongChang è un mondo di domande. Ma da ieri con una speranza in più.