La Gazzetta dello Sport

Azzurri, raddrizzat­e il tiro Hofer: «Insieme più forti»

- Stefano Arcobelli INVIATO A PYEONGCHAN­G (SUD COREA)

Non uno, ce ne vorrebbero quattro di psicologi nel biathlon. Quello di Dominik Windisch dice che aveva perso gli «occhi di tigre» dopo il bronzo, e non va bene. Fabrizio Curtaz, il capo tecnico, non pensa a gestire le menti dei suoi atleti che oggi proveranno a difendere il bronzo di 4 anni fa quando la staffetta mista esordì ai Giochi. Due donne prima, due uomini poi. Dice Lukas Hofer, al traguardo di Sochi 2014 con la bandiera: «Lotteremo sino alla fine, con le donne è un altro spirito; è tutta la squadra italiana che gareggia per un obiettivo, non solo donne o solo uomini. Vediamo cosa ci consegnera­nno le donne, al resto penseremo noi». Lui leader e il cambio di testimone con Dominik, che passa dal parrucchie­re per cambiare look, inseguito dalle telecamere. Dorothea Wierer lancia la sfida alla Svezia «dai materiali più veloci», a Germania, Francia e Norvegia: «Sono le più pericolose, forti nel tiro e sugli sci ma noi sappiamo di essere una squadra competitiv­a. Il meteo è cambiato, non la mia stanchezza perenne, per dormire ho bisogno dei sonniferi». Lisa Vittozzi ripete di essere ancora più carica dopo la medaglia sfiorata, ma il tema ricorrente resta: perché questo poligono coreano è stregato? E qui entra in gioco il saggio Curtaz, affidandos­i ai migliori quattro biathleti: «Abbiamo dovuto presentare finora staffette a trazione anteriore, per permettere agli altri di essere più tranquilli al poligono». Dove i sogni si trasforman­o sovente in incubi. «Ora è più difficile vincere. Ma ogni giorno si parte da zero, è il bello e il brutto del biathlon. Ma è unico. Ci sono 11 facce diverse su dodici medaglie assegnate».

Lo sport più complesso e fantasy che fa impazzire i ragazzi, che sembra un film di James Bond, che manda fuori di testa per un colpo, lo sport che Dorothea invita a seguire per non rischiare di criticare senza capire. Curtaz spiega: «E’ come tirare 5 rigori ripetuti centinaia di volte: chi non ha mai sparato sotto sforzo non può capire, è difficilis­simo. Il tiro è come un rigore. E se spiazzi il portiere e la palla va sul palo, all’incrocio, l’esecuzione è perfetta, ma sbagliata di misura. A un atleta che sbaglia di un millimetro, di mezzo millimetro, che cosa vuoi dire?”. A una Doro direi lo stesso “sei stata bravissima”». Ma se gli errori sono troppi come qui? «Certo, rispetto a tutti gli zero in coppa del Mondo qui sembra che non siano più capaci di sparare, ma è andata così e non vale solo per noi. Però i nostri atleti non conoscono gli alibi, scontano la penalità davanti a tutti. Vivono una penitenza. La punizione devi farla vedere a tutti. L’atleta impara ad accettare l’errore prima di tutto, gli alibi non servono a niente. Chi sbaglia meno vince, non si può pretendere la gara perfetta ogni volta».

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Dorothea Wierer, 27 anni, impegnata al poligono

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