La Gazzetta dello Sport

IL CALCIO DI ALLEGRI PELLE-OSSA. E TITOLI

Il dibattito sull’allenatore dei bianconeri

- LA ROVESCIATA di ROBERTO BECCANTINI

Se c’è stato il Sacchismo e poi il Guardiolis­mo e quindi il Contismo, e se imperversa il Sarrismo, perché non dovrebbe esserci l’Allegrismo? Non che lo si debba alla vittoria sul Toro, ma le modalità l’hanno ribadito. Viviamo un calcio in cui aver segnato due gol in dieci minuti al Tottenham viene considerat­o «paradossal­mente» un freno; e l’infortunio di Gonzalo Higuain dopo tre minuti «paradossal­mente» un problema per gli avversari. Argomenti minimalist­i, stravagant­i.

Sorretta da una rosa massiccia, la «ragion pratica» di Massimilia­no Allegri sta toccando vertici sublimi. Temo fortemente che partite come il derby, fin troppo quieto rispetto alle bufere del passato, possano confondere il peso netto della squadra, anche se nell’arco di tre stagioni il tecnicoche-spacca l’ha portata per ben due volte in fondo a tutte le competizio­ni (campionato, Coppa Italia, Champions League) e nell’attuale è ancora in lizza ovunque e comunque. Fatti, non opinioni.

Per la cronaca, e per la storia, la Juventus non conquista la Champions dal 1996. Sono ventidue anni, e il grande Incartator­e è arrivato nel luglio del 2014. Ha un alibi di ferro. Il suo è un calcio dalla vita (e la difesa) «bassa», d’attesa, di mosse che chiamiamo intuizioni o botte di sedere in base al tifo. Per esempio: alla febbre di Mario Mandzukic ha provveduto ribaltando la catena di sinistra, Kwadwo Asamoah terzino e Alex Sandro ala (più o meno). E perso il Pipita, dentro Federico Bernardesc­hi, mancino come Alex Sandro e Douglas Costa. Morale della favola, e dei calcoli: assist di Bernardesc­hi, gol di Alex Sandro. Entrambi di destro. In Europa, là dove il livello della concorrenz­a è molto più alto, Allegri non sempre ci azzecca: la memoria corre a Monaco di Baviera, alla sera in cui avrebbe dovuto ribellarsi alle catene di un 2-2 casalingo e stava per riuscirci. D’improvviso tolse il migliore in campo, Alvaro Morata, e il cielo si infuriò. Oppure all’intervallo di Cardiff, quando non ebbe il coraggio di licenziare «almeno» uno zoppo tra Miralem Pjanic e Mandzukic.

Per Arrigo Sacchi, Allegri è un grande allenatore che non sa di esserlo e, per questo, pensa in piccolo. Gestisce e non libera le risorse, coltiva i risultati e non le emozioni, gonfia gli albi d’oro come se fosse poco, come se fosse facile - e sgonfia le gomme dei non allineati: noia chi molla. L’Allegrismo è una strana mistura di scacchi e meccano, all’interno della quale il ruvido podismo di uno Stefano Sturaro può giovare alla causa più delle piroette di un Paulo Dybala (e non parlo del Dybala di domenica, fresco di recupero).

La sintesi emerge, spericolat­a, dal primo tempo della sfida con il Tottenham, tra l’avvio di fuoco e la successiva mezz’ora di cenere. Gli episodi lo inseguono e perseguita­no, vista la manovra pelle-e-ossa che di norma sbatte in faccia alle fisime degli esteti. Punta al massimo senza curarsi del meglio.

Le idi di marzo si avvicinano, e con esse gli snodi fatali. Allegri non è un fissato alla Maurizio Sarri né un prigionier­o del suo slogan: «Per un colpo di stato bastano diciotto uomini». Lui, di colpi di stato, ne deve sventare un paio all’anno (scudetto, Coppa Italia). Ecco perché, alla Juventus, sarà sempre Bastiglia e mai Allonsenfa­nts.

«In Italia, scriveva Leo Longanesi, tutti sono estremisti per prudenza». Se proprio tutti, non so. Ma un livornese che colleziona titoli, di sicuro.

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