BERGAMASCA TOSTA E VINCENTE SAREBBE PIACIUTA A CANDIDO
Candido e Sofia, cronaca di un amore nato tra le nevi e il cielo. Perdonate se divago un po’ in un giorno importante ma sarebbe piaciuta da impazzire a Cannavò questa bergamasca tosta e carismatica, fredda al punto da piazzare una delle imprese più monumentali dello sport olimpico italiano nel giorno esatto in cui era attesa. Goggia, tutto o niente. Quasi sempre tutto. Sotto la tuta azzurra, schermata da un sorriso birichino, c’è una lady di ferro capace di presentarsi in conferenza stampa a spiegare senza enfasi che lei è una pasticciona ma anche una samurai, approfondire aspetti tecnici e lato umano del suo storico oro in un inglese sciolto, giocare con le citazioni classiche. E alla fine salutare tutti in coreano. Serve altro per riconoscere una fuoriclasse? Le coincidenze, diceva Doris Lessing, sono lo stratagemma che Dio utilizza per restare anonimo: lo storico direttore della Gazzetta — che se n’è andato il 22 febbraio 2009, esattamente nove anni fa oggi — è stato il grande cantore delle donne e della loro ascesa nello sport. Se ne innamorava, platonicamente s’intende, col permesso della signora Franca. Le adottava sin dai primi passi, le seguiva, le incitava, le accompagnava in copertina con titoli che rimangono, come quel bombastico «Evviva le donne» per Compagnoni e Di Centa a Lillehammer. Successe anche con Idem, Vezzali, Belmondo, Pellegrini e tante altre. Nei loro trionfi celebrava una doppia vittoria: sulle avversarie e contro il pregiudizio. Nel carattere femminile applicato all’agonismo individuava talenti di cui noi uomini sovente difettiamo, per esempio la determinazione assoluta di fronte all’ostacolo, la capacità di non trovare scuse nei giorni bui, l’assenza di retorica in quelli gloriosi. Sofia Goggia è questo. E altro ancora. Un impasto bizzarro, prezioso e molto italiano tra due culture. Classica e digitale. La figlia, fidanzata o sorella che tutti vorremmo, non è una montanara predestinata, viene da una famiglia di Bergamo Alta, padre ingegnere e pittore, madre professoressa di lettere. L’hanno chiamata Sofia in omaggio alla dea greca della sapienza. Infatti ha studiato e continua a studiare, ama la fotografia e la letteratura inglese, cita agilmente roba finissima come Thomas Hardy e John Keats. Una polivalente tardo romantica, insomma, che danza sul mondo anche senza gli sci. Sceglie. Definisce la propria identità di donna con il taglio di una lamina nel ghiaccio: «Mi piace apparire come sono. Odio le fighettine del centro. Ma quando serve m’infighisco anch’io…». La sfida è il suo destino. Non è questione di cattiveria, assicura. E’ un problema di fame, come con gli hamburger che «se me ne metti uno davanti lo sbrano». Sbranare, un verbo curioso e violento, esprime alla perfezione tutto ciò che Sofia ha scaricato in quegli interminabili 99 secondi e 22 centesimi sulla pista di Pyeong Chang. Quattro anni di sofferenza e quattro operazioni alle ginocchia alla ricerca della stabilità sugli sci ma soprattutto del «baco», dell’errore che sbarra la strada alla perfezione. Senza mai mollare. Neppure quel 7 dicembre del 2013 quando, vedendola tornare da Lake Louise con i legamenti in pezzi e gli occhi gonfi, qualcuno (ma non lei) pensò che la sua carriera potesse finire lì. Nove centesimi per l’oro sono nulla e tutto, il battito d’ali di una farfalla. Contengono in meno di un respiro la differenza che fa la mente applicata a un lavoro tecnico lungo e minuzioso. Sofia, ovviamente, scia in maniera divina ma non è nata priva di difetti. Spesso la tradiva la foga che scompone su un salto, il peso fatalmente sospinto all’indietro dalla legge di Newton, un anticipo esagerato o un ritardo millimetrico che obbligano cosce e caviglie agli straordinari mentre la velocità diminuisce. Oppure inizia il volo, la tombola disperata dei discesisti distratti. Su questo si è concentrata, con tecnici come Ghezze e Rulfi, in maniera superlativa. Ieri ha indovinato linee ardite nella parte alta e tirato curve intessute da traiettorie ritmiche nella parte bassa. Così, in una mattina coreana che in Italia è divenuta notte magica, ha messo dietro la divina amica Vonn, ha ricevuto il testimone olimpico dalla Gisin e per la prima volta dev’essersi sentita all’altezza del suo modello, quella Tina Maze per cui professava ammirazione e timore («quando arrivava lei era puro terrorismo psicologico»), la campionessa a cui, sugli sci e nella vita, somiglia di più. «Mi sento sul pezzo: punto all’oro», aveva detto la Goggia al nostro magazine «G» già a dicembre, quando andava di peste. Con questa spavalda convinzione in testa e nelle gambe ha scritto la storia nella specialità regina dello sci alpino. Ma le altre stelle italiane, Moioli e Fontana non vanno dimenticate. Sarà l’olimpiade delle donne, avevamo pronosticato. Le pagine che seguono, con il lavoro prezioso dei nostri inviati, sono una conferma e un atto d’amore nel filo rosa della tradizione di Cannavò. Ma è vietato distrarsi. L’Olimpiade dura ancora quattro giorni. Sorelle d’Italia, il nostro inchiostro non è finito.