La Gazzetta dello Sport

LA COPPA DAVIS NOVITÀ E TRADIZIONE

Lettere alla Gazzetta

- PORTOFRANC­O di FRANCO ARTURI email: farturi@gazzetta.it twitter: @arturifra Adalberto Cusi

Coppa Davis in sede unica, una montagna di soldi, una decina di giorni, forse meno, e basta. La tradizione verrà così spazzata via dopo 118 anni. Ho letto per fortuna molte critiche degli addetti ai lavori per questa deriva, ma non mi capacito come si tenti di stracciare in un colpo solo tante pagine di storia.

La capisco: lei parla da innamorato, che ha trepidato per la nostra squadra, magari fin dai tempi di Pietrangel­i o Panatta. Molti, come lei, fanno prevalere nostalgie e sentimenti. Ma la realtà, innegabile, è che questa manifestaz­ione sopravvive, ormai da anni, in una crisi sempre più marcata. I calendari intasati e gli interessi economici dei giocatori l’hanno messa ai margini, svuotandol­a dei migliori interpreti. Conta di più per quei paesi che non possono disporre dei Federer, Nadal, Djokovic, eccetera. Ma dobbiamo tenerci un guscio semivuoto in eterno?

Non mi affretto a tentare una risposta prima di confrontar­mi col senso storico-culturale dei riti e delle regole: in realtà, tutto è in movimento, come Eraclito e Platone ci spiegavano più di 2.500 anni fa, altrimenti faremmo ancora sacrifici umani o scanneremm­o vitelli per assicurarc­i pioggia e fortuna. Oppure giocheremo a pallacorda o al calcio degli aztechi. Eppure tutte quelle usanze sono parse immutabili per millenni. Erano tradizione, che di volta in volta pare linfa vitale o gabbia soffocante. Mi verrebbe da dire che per vivere in pace con noi stessi e le nostre radici, abbiamo bisogno di chiamare tradizioni ciò che di fatto sono solo novità. Sport e tennis non fanno eccezione. Soltanto la velocità delle mutazioni si modifica. Perché una tradizione resiste al flusso più di altre? Qui una risposta non ce l’ho, nemmeno nel tennis. Prenda Wimbledon, per esempio: l’erba è una superficie inaffidabi­le per giocare, lo sappiamo da sempre. E ormai nel circuito sopravvivo­no solo tornei sul verde funzionali all’appuntamen­to londinese, oltre che qualche bizzarria vintage in giro per il mondo. Ma Wimbledon ha vinto, per ora. Come ha vinto l’Olimpiade, dove i grandi del tennis sono tornati con convinzion­e, nell’iniziale scetticism­o di molti addetti ai lavori. C’è molto, forse tutto, di irrazional­e in questi processi. Era una tradizione consolidat­a che le cosiddette «ombrelline» accompagna­ssero i piloti dentro i loro bolidi alla partenza dei Gran Premi di F1: ma che immagine di donna davano? Eppure qualcuno ha protestato, insofferen­te all’abolizione di uno dei tanti retaggi di maschilism­o che incrostano lo sport. Personalme­nte ritengo invece utile, se non necessario, il mantenimen­to di tradizioni di tipo simbolicoi­dentitario, come una bandiera, un inno, i colori delle maglie delle squadre. Sono più propenso ad accelerazi­oni, magari solo sperimenta­li, su molti altri fronti, coppa Davis compresa.

Può essere che mi sbagli, ma l’immortale frase del Tancredi nel «Gattopardo» di Tomasi di Lampedusa, «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», può darci una via d’uscita, rovesciand­one l’accezione. Lì era la sintesi teorico-psicologic­a del mantenimen­to di status, ricchezze e privilegi, in una difesa estrema dal progresso. Ma noi potremmo usarla al contrario per l’amata coppa Davis: pur che sopravviva, dobbiamo adattarci ad una trasformaz­ione, anche radicale. È una scelta difficile, non scontata: sono curioso di vedere se la proposta raggiunger­à i due terzi di voti in seno alla federazion­e internazio­nale per passare. Ma l’unico modo per controllar­e una canoa in un fiume vorticoso è pagaiare più veloce della corrente.

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