LA COPPA DAVIS NOVITÀ E TRADIZIONE
Lettere alla Gazzetta
Coppa Davis in sede unica, una montagna di soldi, una decina di giorni, forse meno, e basta. La tradizione verrà così spazzata via dopo 118 anni. Ho letto per fortuna molte critiche degli addetti ai lavori per questa deriva, ma non mi capacito come si tenti di stracciare in un colpo solo tante pagine di storia.
La capisco: lei parla da innamorato, che ha trepidato per la nostra squadra, magari fin dai tempi di Pietrangeli o Panatta. Molti, come lei, fanno prevalere nostalgie e sentimenti. Ma la realtà, innegabile, è che questa manifestazione sopravvive, ormai da anni, in una crisi sempre più marcata. I calendari intasati e gli interessi economici dei giocatori l’hanno messa ai margini, svuotandola dei migliori interpreti. Conta di più per quei paesi che non possono disporre dei Federer, Nadal, Djokovic, eccetera. Ma dobbiamo tenerci un guscio semivuoto in eterno?
Non mi affretto a tentare una risposta prima di confrontarmi col senso storico-culturale dei riti e delle regole: in realtà, tutto è in movimento, come Eraclito e Platone ci spiegavano più di 2.500 anni fa, altrimenti faremmo ancora sacrifici umani o scanneremmo vitelli per assicurarci pioggia e fortuna. Oppure giocheremo a pallacorda o al calcio degli aztechi. Eppure tutte quelle usanze sono parse immutabili per millenni. Erano tradizione, che di volta in volta pare linfa vitale o gabbia soffocante. Mi verrebbe da dire che per vivere in pace con noi stessi e le nostre radici, abbiamo bisogno di chiamare tradizioni ciò che di fatto sono solo novità. Sport e tennis non fanno eccezione. Soltanto la velocità delle mutazioni si modifica. Perché una tradizione resiste al flusso più di altre? Qui una risposta non ce l’ho, nemmeno nel tennis. Prenda Wimbledon, per esempio: l’erba è una superficie inaffidabile per giocare, lo sappiamo da sempre. E ormai nel circuito sopravvivono solo tornei sul verde funzionali all’appuntamento londinese, oltre che qualche bizzarria vintage in giro per il mondo. Ma Wimbledon ha vinto, per ora. Come ha vinto l’Olimpiade, dove i grandi del tennis sono tornati con convinzione, nell’iniziale scetticismo di molti addetti ai lavori. C’è molto, forse tutto, di irrazionale in questi processi. Era una tradizione consolidata che le cosiddette «ombrelline» accompagnassero i piloti dentro i loro bolidi alla partenza dei Gran Premi di F1: ma che immagine di donna davano? Eppure qualcuno ha protestato, insofferente all’abolizione di uno dei tanti retaggi di maschilismo che incrostano lo sport. Personalmente ritengo invece utile, se non necessario, il mantenimento di tradizioni di tipo simbolicoidentitario, come una bandiera, un inno, i colori delle maglie delle squadre. Sono più propenso ad accelerazioni, magari solo sperimentali, su molti altri fronti, coppa Davis compresa.
Può essere che mi sbagli, ma l’immortale frase del Tancredi nel «Gattopardo» di Tomasi di Lampedusa, «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», può darci una via d’uscita, rovesciandone l’accezione. Lì era la sintesi teorico-psicologica del mantenimento di status, ricchezze e privilegi, in una difesa estrema dal progresso. Ma noi potremmo usarla al contrario per l’amata coppa Davis: pur che sopravviva, dobbiamo adattarci ad una trasformazione, anche radicale. È una scelta difficile, non scontata: sono curioso di vedere se la proposta raggiungerà i due terzi di voti in seno alla federazione internazionale per passare. Ma l’unico modo per controllare una canoa in un fiume vorticoso è pagaiare più veloce della corrente.