Schiaffo Warriors «Noi da Trump? Mai»
●Curry e compagni hanno preferito andare al museo afroamericano con una scolaresca di 40 alunni festanti
Per chi avrebbe votato Steph Curry era chiaro già nei mesi precedenti alle elezioni del novembre 2016, quando la star dei Golden State Warriors sponsorizzò ufficialmente Hilary Clinton. Ma la prima scaramuccia ufficiale con il Presidente Donald Trump era scoppiata al principio di febbraio 2017. Una replica persino spiritosa di Steph a una esternazione di Kevin Plank, Ceo della Under Armour, l’azienda d’abbigliamento sua sponsor. Plank aveva detto: «Trump è un grande asset per il Paese». Curry aveva ribattuto: «Sono d’accordo, ma solo se si tolgono la “e” e la “t” dalla parola». Insomma, un «ass»: letteralmente «di dietro». Una sorta di dichiarazione di guerra. Erano seguite continue punzecchiature via social, fino a quando il due volte Mvp del campionato, insieme ad altri compagni, aveva fatto sapere alla vigilia delle Finals che in caso di vittoria non sarebbe andato in visita alla Casa Bianca. La decisione ufficiale dei Warriors di snobbare Trump era arrivata il 23 settembre, con lo scudetto cucito sulle maglie a giugno, poco prima di iniziare la nuova stagione. Fu lo stesso Curry a chiarire: «Spero che non presentandoci al cospetto del Presidente ispireremo un cambiamento su ciò che adesso viene tollerato in questa Nazione. Non credo che agendo in questo modo miracolosamente miglioreremo la situazione, ma è la nostra opportunità per dar voce alla nostra protesta».
SILENZIOSA Quella protesta silenziosa e pacifica c’è stata martedì, il giorno prima della partita con i Washington Wizards, data designata per l’incontro, se mai ci fosse stato l’invito. Perché dopo l’uscita di Curry, Trump aveva subito risposto piccato: «Andare alla Casa Bianca è considerato un grande onore per un team campione. Stephen Curry sta esitando, perciò l’invito è revocato». Allora i Warriors avevano promesso: utilizzeremo quella giornata per qualcosa di costruttivo. Così invece di presentarsi nell’Ufficio Ovale, hanno convocato una scolaresca di 40 alunni da Seat Confort, la cittadina alle porte della Capitale dove è cresciuto Kevin Durant, per visitare con loro il National Museum African American History and Culture. Se volevano fare rumore, è stato il modo più bello. Quaranta ragazzini con gli occhi spalancati ad ammirare i loro campioni, rinchiusi nel museo per una lezione di storia utilissima: un regalone.
FELICE Come spiegava KD: «Sono entrato lì dentro come fossi uno di quei bambini, cercando di imparare cose nuove e felice di essere lì». Il più soddisfatto, però, era Curry: per aver evitato la stretta di mano non gradita e aver raccolto una massiccia solidarietà dai colleghi della Nba. Spiegava: «I giocatori della Lega hanno capito il potere che hanno le nostre voci e l’importanza di essere ognuno al fianco dell’altro. Noi con lo sport portiamo nelle arene un messaggio ben diverso da quello divisivo e carico di odio e retorica che ci arriva dai vertici del Paese. Noi trasmettiamo unità, amore e positività». Poi i Golden State sono andati regolarmente sul parquet a fare il loro lavoro: giocare a basket e vincere (contro i Wizard).
NOI NELLE ARENE TRASMETTIAMO UNITÀ, AMORE E POSITIVITÀ
STEPH CURRY PLAY WARRIORS
ANDARE ALLA CASA BIANCA È UN ONORE STEPH ESITA INVITO RITIRATO
DONALD TRUMP PRESIDENTE USA