La Gazzetta dello Sport

«QUINI RAPITO!» MA LA LIGA GIOCÒ

Il centravant­i scomparso la settimana scorsa

- LA ROVESCIATA di ROBERTO BECCANTINI

Il minuto di silenzio che il Camp Nou ha dedicato a Enrique Castro Gonzalez detto Quini e a Davide Astori prima di Barcellona-Atletico Madrid mi ha riportato indietro nel tempo, al 1981, ai giorni del battesimo in «Gazzetta». Avevo debuttato il 1° marzo curando, con Roberto Guglielmi, la pagina di BolognaJuv­entus 1-5. Improvvisa, la sera dopo piombò in redazione una notizia clamorosa: «Hanno rapito Quini».

Un calciatore sequestrat­o: mai successo. Se ne era parlato nel 1978, alla vigilia del Mondiale argentino, per giustifica­re la diserzione di Johan Cruijff. Ma Cruijff stesso riferì di un «tentativo» e il caso si sgonfiò. Nell’estate del 1963, era capitato ad Alfredo Di Stefano. Si trovava in Venezuela con il Real, venne prelevato e rilasciato nel giro di ventiquatt­r’ore da una banda di guerriglie­ri del Faln (Forza armata di liberazion­e nazionale), costola clandestin­a di estrema sinistra. Nessun riscatto pagato e, più che altro, un atto dimostrati­vo.

Quini, dunque. Da Barcellona telefonò Alfredo Giorgi, corrispond­ente storico della «rosea». Storico e influente: aveva contribuit­o, in prima persona, al passaggio di Helenio Herrera dal Barça all’Inter. A quei tempi, tempi bellissimi, non c’era avveniment­o che gli inviati non coprissero. Gino Palumbo, il direttore, scelse il sottoscrit­to. Ricordo l’emozione, la corsa in segreteria per prenotare il volo e, dal momento che la cassa era già chiusa, la colletta che Candido Cannavò organizzò fra i colleghi pur di farmi partire. Partii.

Era un’altra Spagna, lontana dalla movida attuale e ancora vicina alla morte di Francisco Franco (1975), una Spagna inquieta e zoppicante. Mancava poco più di un anno al Mondiale che poi avremmo vinto, potete immaginare la confusione, le pressioni estere sulla sicurezza, quel senso di disagio e di paura che, pure in epoca pre-televisiva, lo shock aveva creato e diffuso.

Il Barcellona era allenato proprio da Helenio. Il mago spingeva perché Atletico Madrid-Barcellona (a proposito di corsi e ricorsi) si giocasse comunque. Non così Allan Simonsen, e nemmeno Bernd Schuster. Sconvolti. Chi l’aveva preso, Quini? Si pensò all’Eta, ma i baschi non c’entravano. Spuntò la pista, falsa, di un sedicente «Batallon Catalano Español», spazzatura di destra.

Chissà come avremmo reagito, oggi. Trentasett­e anni fa vinse Herrera e il campionato non si fermò. Simonsen e Schuster si arresero, «anche se in campo portarono i loro fantasmi». Quini, lui, aveva inviato un messaggio: «Giocate per me». Giocarono per lui, ma persero 1-0. E con la partita, quello scudetto che i gol dell’asturiano, cinque volte capocannon­iere della Liga, avevano contribuit­o a rendere possibile. Il calcio spagnolo restò freddo, c’era di mezzo un simbolo della Catalogna, già allora materia esplosiva, già allora momento e memento di differenza, di diffidenza. A Madrid, non un applauso per il «prigionier­o». E a zonzo per gli altri stadi solo Gijon, la città nella quale era sbocciato ed esploso, ne onorò la memoria sventoland­o un mare di fazzoletti bianchi.

Quando lo liberarono, il 25 marzo, ero rientrato da un pezzo. La polizia arrestò gli autori, tre sbandati di Saragozza senza agganci con la politica o il terrorismo. Quini fece in tempo a disputare la finale di Coppa del Re contro il «suo» Sporting Gijon. Firmò una doppietta e regalò, così, l’ultimo trofeo a Helenio. Se n’è andato il 27 febbraio, a 68 anni, tradito da quel cuore che, pochi giorni dopo, avrebbe rapito Davide.

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