La Gazzetta dello Sport

CAPOLAVORO MAX E IL BELLO CHE VERRÀ

Champions, il trionfo della Juve a Wembley

- IL COMMENTO di ALESSANDRO DE CALÒ twitter: @AdeCal

Davanti al dilemma molto british, del vincere-onon-essere (più in Europa), la Juve è capace di soffrire per un’ora tipo topo col gatto e di colpire come un cobra, per la vittoria, prendendos­i in dieci minuti il destino in mano. Il bello di questa squadra è che sembra lasciarti vedere quasi sempre solo la punta dell’iceberg: tu pensi a quello che c’è sotto la superficie del mare e resti convinto che il bello debba ancora arrivare, sia sempre davanti. Continua a essere così, mentre ci ripassano davanti agli occhi le fatiche dei nuovi “leoni di Wembley”, i piccoli strafalcio­ni e l’impotenza esibita nel primo tempo, assieme alle prodezze di Higuain e Dybala, decisivo a un passo dal traguardo col suo lampo nel buio come pochi giorni fa all’Olimpico di Roma. I cambi in corsa sono stati fondamenta­li, una mano che volta pagina: Asamoah per Matuidi al minuto 60, Lichtstein­er per Benatia subito dopo. La Juve si è presa le corsie laterali, ha cominciato ad attaccare davvero e in un amen ha steso gli Spurs.

Il capolavoro di Max Allegri è esattament­e questo: ha cancellato il confine tra il nostro calcio e quello europeo, ha trattato il Tottenham come fosse la Lazio – con tutto il rispetto – senza preoccupar­si troppo della qualità nella costruzion­e del gioco. Fa molto vecchia scuola italiana, ma funziona alla grande. Adesso che è nei quarti – dopo le due finali giocate negli ultimi tre anni – il cobra-Juve mette paura alle altre big d’Europa. Non esiste un solo mood per sentirsi a casa in Champions. Il Real di Zidane ha un profilo diverso. Rinasce ogni volta, attorno a Ramos e CR7, quando si accende la famosa musichetta della Champions, come succedeva al Milan all’inizio del secolo. A proposito di Milan: vedremo stasera se la musica funziona ancora e se avrà effetto in Europa League dove c’è un Arsenal con cui fare i conti. Intanto Pep Guardiola continua a dire che il suo Manchester City deve crescere. Il kappaò, indolore, col Basilea gli dà ragione: la sua squadra ha fatto enormi progressi rispetto all’anno scorso, se continuerà ad allungare la stessa curva di tendenza, rischia di diventare poco avvicinabi­le per chiunque. Non è soltanto una questione di allenatore. Conta: penso che il Pep sia sempre il numero uno. Però è fondamenta­le il club: non basta avere tanti soldi , servono le competenze giuste, gente capace di fare scelte importanti, di difenderle sulla base di una visione forte che è anche l’humus giusto dentro al quale può crescere un senso di appartenen­za. Il City è tutto questo. Sta facendo un buon lavoro di squadra.

Ho l’impression­e, invece, che la situazione del Psg sia sostanzial­mente diversa. Non per i soldi, anche a Parigi c’è la possibilit­à di attingere a fondi quasi illimitati. Non per i soldi ma per la struttura del club. Manca la figura di un dirigente sportivo come Leonardo, il genio che ha immaginato e costruito questa squadra prima di andarsene (2013). Nessuno l’ha sostituito in modo adeguato e per questo il Psg non è più cresciuto. Manca sempre qualcosa per fare l’ultimo salto di qualità, che non dipende dai soldi: i 400 milioni spesi nell’ultima estate lo dimostrano. Ciclicamen­te si ripresenta­no gli stessi problemi: l’antagonism­o Ney-Cavani, clone di quello con Ibra, è solo un esempio. L’isteria di Verratti – da ultima – è un sintomo dell’aria che tira. Col Real mancava Neymar, certo, ma non basta a giustifica­re il flop. Emery è vicino al capolinea sta per liberarsi una panchina d’oro: presto potrebbe tornare a parlare italiano. C’è tempo. Godiamoci la Champions che sta entrando nel vivo. E aspettiamo la Roma: può farcela con lo Shakhtar. Poi potremmo divertirci, davvero.

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