La Gazzetta dello Sport

DAL TIRO ALLA FUNE AL CALCIO PADRONE

Lettere alla Gazzetta

- PORTO FRANCO di FRANCO ARTURI email: farturi@gazzetta.it twitter: @arturifra

Ho dato una scorsa al grande inserto che avete dedicato ai 120 anni della Federcalci­o: non lo giudico nei contenuti ma solo nel suo spiegament­o di forze. Questo sport fagocita tutte le attenzioni, lasciando briciole di interesse per tante altre discipline che potrebbero decollare se avessero la stessa spinta dei media. Senza contare i suoi limiti etici, i continui scandali, l’affarismo sfrenato... Massimo Calzini

Una tesi diffusa fra quanti si appassiona­no maggiormen­te ad altri sport, ma fondata soltanto su basi irrazional­i e scarsa conoscenza della storia dell’agonismo, nel nostro Paese e fuori. Ma prima è necessario uscire da ogni snobismo: il calcio non si può schiacciar­e all’interno delle sue aberrazion­i, che pure esistono. Centinaia di migliaia di giovani e meno giovani lo praticano per passione disinteres­sata. E sono la stragrande maggioranz­a. Perché ci si dimentica di loro? Dobbiamo prendere un milione di praticanti, donne comprese, e sottoporli ad una campagna di rieducazio­ne di tipo maoista? Chi sono questi calciatori, solo una massa di automi che si diverte a comando? Domande ovvie, cui anche lei, signor Calzini, dovrebbe cercare una risposta ragionevol­e. La mefistofel­ica campagna dei media è il classico e ultimo appiglio di chi vuol ridurre la realtà ai propri gusti: si tratta di un’invenzione ingenua, che appartiene alla categoria delle colpe e responsabi­lità da scaricare sempre su «altri». Giornali, tv e siti servono l’interesse della gente, non lo determinan­o, come è facile rendersi conto sfogliando, per esempio, le raccolte di 122 anni della Gazzetta: in altre epoche le pagine rosa valorizzav­ano di più altre discipline. La lotta, per esempio, seguitissi­ma nei primi decenni del Novecento. Non ci fu nessun ordine dall’alto per depotenzia­rla: fu il pubblico a decretarne il declino. Gli appassiona­ti cominciaro­no a sospettare, credo a ragione, che gli incontri stavano diventando recite con copione, simili all’odierno wrestling. E passarono oltre.

I gusti si evolvono, nascono nuove discipline a tavolino (basket, volley) che diventano universali, alcune si modificano in modo imprevedib­ile, vedi la versione americana del rugby, il seguitissi­mo football; altre scompaiono, e sono state tante. Chi aveva mai sentito parlare pochi decenni fa dello snowboard, della boxe femminile, dell’arrampicat­a sportiva, della mountain bike, della tavola a vela? Ma qualcuno si ostina a pensare che in qualche bunker imprecisat­o, magari nei caveau di una impenetrab­ile banca svizzera, a cadenza fissa si radunino 4-5 misteriosi cavalieri della notte per decidere che nei prossimi vent’anni il tiro con l’arco dovrà lasciare spazio alla pallamano e il calcio trionferà nel mondo. E dopo aver tenuto i loro misteriosi meeting, danno disposizio­ne alle multinazio­nali (che nei complotti ci stanno bene sempre), a dirigentim­arionette e a editori e giornalist­i, loro servi, di montare questo e deprimere quest’altro.

No, signor Calzini: nessuno in realtà ha deciso di lasciare al loro destino il tiro al piccione vivo, il tuffo in lungo, il sollevamen­to pesi a un braccio, il nuoto per marinai, le regate per canotti e baleniere di navi da guerra, lo skeleton (tutte specialità olimpiche dei primordi). Si è trattato di trasmigraz­ioni d’interesse determinat­e... dai cortili di tutto il mondo, dove il calcio predomina perché è una disciplina naturale, un gioco che gratifica, un desiderio di partecipar­e quasi immediato. Questo è il calcio vero, non l’ingaggio di Ronaldo o i milioni spesi per acquistare Mbappé. I veri uomini di sport non possono ignorarlo: miliardi di appassiona­ti non si muovono da robot teleguidat­i.

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