DAL TIRO ALLA FUNE AL CALCIO PADRONE
Lettere alla Gazzetta
Ho dato una scorsa al grande inserto che avete dedicato ai 120 anni della Federcalcio: non lo giudico nei contenuti ma solo nel suo spiegamento di forze. Questo sport fagocita tutte le attenzioni, lasciando briciole di interesse per tante altre discipline che potrebbero decollare se avessero la stessa spinta dei media. Senza contare i suoi limiti etici, i continui scandali, l’affarismo sfrenato... Massimo Calzini
Una tesi diffusa fra quanti si appassionano maggiormente ad altri sport, ma fondata soltanto su basi irrazionali e scarsa conoscenza della storia dell’agonismo, nel nostro Paese e fuori. Ma prima è necessario uscire da ogni snobismo: il calcio non si può schiacciare all’interno delle sue aberrazioni, che pure esistono. Centinaia di migliaia di giovani e meno giovani lo praticano per passione disinteressata. E sono la stragrande maggioranza. Perché ci si dimentica di loro? Dobbiamo prendere un milione di praticanti, donne comprese, e sottoporli ad una campagna di rieducazione di tipo maoista? Chi sono questi calciatori, solo una massa di automi che si diverte a comando? Domande ovvie, cui anche lei, signor Calzini, dovrebbe cercare una risposta ragionevole. La mefistofelica campagna dei media è il classico e ultimo appiglio di chi vuol ridurre la realtà ai propri gusti: si tratta di un’invenzione ingenua, che appartiene alla categoria delle colpe e responsabilità da scaricare sempre su «altri». Giornali, tv e siti servono l’interesse della gente, non lo determinano, come è facile rendersi conto sfogliando, per esempio, le raccolte di 122 anni della Gazzetta: in altre epoche le pagine rosa valorizzavano di più altre discipline. La lotta, per esempio, seguitissima nei primi decenni del Novecento. Non ci fu nessun ordine dall’alto per depotenziarla: fu il pubblico a decretarne il declino. Gli appassionati cominciarono a sospettare, credo a ragione, che gli incontri stavano diventando recite con copione, simili all’odierno wrestling. E passarono oltre.
I gusti si evolvono, nascono nuove discipline a tavolino (basket, volley) che diventano universali, alcune si modificano in modo imprevedibile, vedi la versione americana del rugby, il seguitissimo football; altre scompaiono, e sono state tante. Chi aveva mai sentito parlare pochi decenni fa dello snowboard, della boxe femminile, dell’arrampicata sportiva, della mountain bike, della tavola a vela? Ma qualcuno si ostina a pensare che in qualche bunker imprecisato, magari nei caveau di una impenetrabile banca svizzera, a cadenza fissa si radunino 4-5 misteriosi cavalieri della notte per decidere che nei prossimi vent’anni il tiro con l’arco dovrà lasciare spazio alla pallamano e il calcio trionferà nel mondo. E dopo aver tenuto i loro misteriosi meeting, danno disposizione alle multinazionali (che nei complotti ci stanno bene sempre), a dirigentimarionette e a editori e giornalisti, loro servi, di montare questo e deprimere quest’altro.
No, signor Calzini: nessuno in realtà ha deciso di lasciare al loro destino il tiro al piccione vivo, il tuffo in lungo, il sollevamento pesi a un braccio, il nuoto per marinai, le regate per canotti e baleniere di navi da guerra, lo skeleton (tutte specialità olimpiche dei primordi). Si è trattato di trasmigrazioni d’interesse determinate... dai cortili di tutto il mondo, dove il calcio predomina perché è una disciplina naturale, un gioco che gratifica, un desiderio di partecipare quasi immediato. Questo è il calcio vero, non l’ingaggio di Ronaldo o i milioni spesi per acquistare Mbappé. I veri uomini di sport non possono ignorarlo: miliardi di appassionati non si muovono da robot teleguidati.