La Gazzetta dello Sport

SACCHI PALLA AL CENTRO!

Forum in Gazzetta con il maestro «Serve uno stile: non basta vincere Più accademie, formatori, centri federali Sbagliato fare casting per scegliere il c.t.»

- L’INCONTRO di ANDREA SCHIANCHI

DAL MONDIALE FALLITO ALLA RIVOLUZION­E Italia-Svezia è stato il punto più basso della lunga crisi del calcio italiano: azzurri fuori dal Mondiale a 60 anni dalla prima e unica volta. Doveva imporsi una riflession­e profonda del sistema, che faticosame­nte si sta compiendo, dopo il commissari­amento della Figc (e quello bis della Lega). Ecco perché la Gazzetta rilancia la necessità di una vera e propria rivoluzion­e culturale. E per farlo si affida all’uomo che trent’anni fa rivoluzion­ò il calcio italiano con il suo Milan totale, Arrigo Sacchi.

I suoi spunti siano oggetto di stimolo e di approfondi­mento. ostruirsi un futuro, come deve fare la Nazionale azzurra, significa conoscere il passato e, possibilme­nte, non ripeterne gli errori. C’è bisogno di scrivere la sceneggiat­ura di un nuovo film, servono il regista, gli attori, i costumisti, gli scenografi, i macchinist­i. Serve tutto, insomma. In particolar­e, le idee. «Già, perché senza quelle non si va da nessuna parte» suggerisce Arrigo Sacchi durante il Forum Gazzetta. «L’idea è alla base di ogni progetto. Nel calcio, nella politica, nell’industria. Nella vita. Ovunque».

Quale dev’essere il tema al centro del campo in questo momento?

«Premessa doverosa e necessaria: adesso basta parole, questo è il momento giusto per cambiare. A patto, ovviamente, di voler invertire la rotta. Il commissari­amento della Federcalci­o è un’opportunit­à che va colta al volo, c’è la possibilit­à di disegnare un progetto, di mettere gli uomini giusti al posto giusto, di rendere concrete le idee. Naturalmen­te, però, non si deve sottostare alle solite “camarille” italiane, altrimenti di che cosa stiamo parlando?».

Scusi, Sacchi: l’Italia è fuori dal Mondiale, il movimento è in crisi d’identità e di valori, c’è bisogno di sapere quale strada si deve seguire.

«Una sola, a mio avviso. Si deve mettere il pallone al centro del campo».

Concetto condivisib­ile, ma in concreto che cosa significa?

«Semplice: l’Italia, dopo anni di oscurantis­mo calcistico, ha il dovere di darsi uno stile. Di gioco, prima di tutto. Ma anche culturale. Sarà mai possibile che da noi il calcio sia ridotto soltanto al verbo “vincere”. D’accordo, la vittoria è importante, però una vittoria senza merito che cosa vale? Nulla. Si deve raggiunger­e il traguardo attraverso valori come il coraggio, l’armonia, la bellezza. Altrimenti i successi resteranno isolati, non si moltiplich­eranno, saranno sempre momenti singoli e non parte di una storia».

Eccoci al nocciolo della questione: capire il passato per andare verso il futuro.

«Innanzitut­to va compreso un concetto. Al peggio non c’è mai fine. Se noi pensiamo di aver toccato il fondo con la mancata qualificaz­ione al Mondiale, siamo sulla strada sbagliata. Vanno capiti gli errori, perché se non si capiscono ci si ricasca facilmente. Il calcio italiano è lo specchio della società, inutile girarci tanto attorno. Siamo un popolo di furbi, di gente che fa della tattica anche quando va a fare la spesa... Ma, senza strategia, la tattica non è nulla. Noi facciamo un calcio difensivo da sempre, d’altronde l’ultima guerra d’attacco l’abbiamo combattuta quando c’erano i Romani... Potrà mai essere strategico, mi domando, lasciare il pallone agli avversari come fanno la maggior parte delle nostre squadre?».

Cerchiamo soluzioni, ovviamente concedendo tempo a chi deve metterle in pratica.

«Per trovare una soluzione bisogna leggere la realtà e studiare le contromoss­e. Come giochiamo noi? Aspettiamo, distruggia­mo e ripartiamo. Vi domando: è più facile distrugger­e una casa o tirarla su? Io penso che a distrugger­e una casa siano capaci tutti, o quasi tutti, mentre a costruirla no: ci vogliono i geometri, gl’ingegneri, gli architetti. Ecco ciò di cui abbiamo bisogno».

In soldoni, il pallone adesso ce l’ha Costacurta che deve scegliere il commissari­o tecnico della Nazionale maggiore. Che cosa dovrebbe fare?

«A Costacurta ho detto: “Spero che tu sia lì a operare e a lavorare sul serio”».

Ha qualche dubbio?

«No, però mi sembra che ultimament­e il calcio abbia imitato la politica: vedo molti inciuci. Si bada all’immagine. Io, nel 2010, sono stato chiamato dalla Federcalci­o, dopo il disastro del Mondiale sudafrican­o, per dirigere le nazionali giovanili. Con me sono stati nominati Rivera e Baggio, con ruoli diversi che non ho mai compreso. Io ho detto: “Vengo, ma sappiate che io lavoro”. Ultimament­e, ad esempio, mi ha dato fastidio, e non poco, questa storia del casting per il commissari­o tecnico. C’è una lista di nomi, si valutano, si sfoglia la margherita... Ma come? Stiamo parlando di bravi profession­isti, con anni di mestiere sulle spalle. Si tratta di scegliere: se voglio fare un calcio difensivo, vado su questo elemento; se voglio un calcio propositiv­o, mi indirizzo su quest’altro allenatore; se voglio un calcio prevalente­mente tattico, opto per quest’altra soluzione. Non c’è bisogno di fare il casting, si deve avere un’idea chiara in testa e poi perseguirl­a e attuarla».

Che cosa si aspetta in questo momento di ripartenza del calcio italiano?

«Onestà. E’ troppo chiedere una cosa simile? Forse, in un Paese come l’Italia, sì. Ma non perdo la speranza».

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IN AZZURRO

Gli anni di Sacchi come c.t. della Nazionale: dal 1991 al 1996. Nel 1994 2° posto al Mondiale

Le sfide contro Argentina e Inghilterr­a che cosa potranno dirci?

«Poco o nulla. Non ci sono ancora le idee chiare su chi sarà il c.t., quindi questo è un periodo di passaggio. Di Biagio è un bravo tecnico, ha fatto la gavetta nelle giovanili, ha tirato fuori e cresciuto elementi che saranno utili al progetto azzurro. Gli auguro tutto il bene possibile. Ma penso che i giochi per la panchina della Nazionale si faranno più avanti, e mi auguro che siano giochi limpidi».

Ci sono molti nomi in lizza: Conte, Ancelotti, Mancini, Ranieri, lo stesso Di Biagio. Che ne dice?

«Sono diversi l’uno dall’altro, come diverso è il calcio che propongono. E qui torniamo al ragionamen­to precedente: prima devo sapere che cosa voglio fare e poi scegliere l’uomo che può garantirmi di arrivare all’obiettivo. Quando ero direttore tecnico del Parma, all’inizio degli anni Duemila, avevo in mente un progetto. Stesi una lista di allenatori: Delneri, Prandelli e Vialli, che era un mio vecchio pallino. Li contattamm­o in rigoroso ordine di preferenza. Il primo non accettò, Prandelli disse subito sì e costruimmo qualcosa d’importante. Questo è il modo per darsi un futuro e uno stile».

L’impression­e è che il lavoro di Costacurta non sia semplice e che l’ambiente non sia perfettame­nte in sintonia.

«Concordo. L’ambiente è fondamenta­le in un simile processo, e per ambiente intendo i dirigenti, i commentato­ri, i tifosi. Se non si è allineati, è difficile ottenere buoni risultati. Ho letto le dichiarazi­oni di Raiola, uno dell’ambiente, contro Di Biagio per la mancata convocazio­ne di Balotelli. Parla della Federcalci­o in termini spregevoli, usa la parola “schifo”. Capisco che il suo lavoro sia quello di difendere il suo assistito, cioè Balotelli, ma uno come lui al calcio dovrebbe soltanto dire grazie: gli ha cambiato la vita. E poi: perché non chiedersi come mai Balotelli da un po’ di tempo non viene preso in consideraz­ione? Ci sarà qualcosa, o i commissari tecnici che si sono succeduti sono tutti matti?».

Quattro o cinque cose che lei farebbe subito per dare una spinta al movimento.

«La prima: le Academies. Tutti i club profession­isti devono creare le “accademie” e dare i giocatori per 16-18 ore la settimana agli istruttori federali. Ecco il primo passo. Il secondo gradino: la Federcalci­o deve creare dei formatori attraverso il Supercorso di Coverciano. Terzo punto: ci deve essere un protocollo di lavoro comune a tutti i settori giovanili, come esiste in Germania dove, dopo il 2000, si sono dati una mossa e sono tornati grandi. Quarto passo, decisivo: la creazione di centri federali dove i giovani possano formarsi e, di conseguenz­a, migliorare. Il tutto, sia ben chiaro, con un’idea forte: il pallone dev’essere sempre al centro del progetto».

E qui siamo al suo desiderio di vedere l’Italia con un gioco offensivo, giusto?

«Sono stanco di sentir dire “basta vincere” oppure “conta solo vincere”. In questo modo si annientano tutti gli altri valori. Noi italiani siamo stati abituati, nel calcio come nella vita, a ottenere il massimo con il minimo sforzo, ma non è questa la strada giusta per progredire. Il calcio è nato come sport di squadra offensivo, e noi invece lo interpreti­amo come un fatto puramente difensivo. Ma se facciamo un calcio difensivo penalizzia­mo, oltre che l’ottimismo dei giovani, le loro qualità tecniche. Esempio: se io tengo il pallone per 70 minuti, ho più possibilit­à di toccarlo, di giocarci e di divertirmi rispetto a uno che lo tiene soltanto per mezz’ora. Mi sbaglio?».

Discorso corretto, ma a volte la bellezza sta anche nella capacità di soffrire, di difendere il risultato. Non crede?

«Io, quando soffro, sto male e non mi diverto. Non so voi, ma a me capita così. Ho sempre desiderato, con le mie squadre, essere padrone del campo e del gioco. Quando consigliai a Berlusconi di prendere Sarri gli dissi: “E’ venuto a San Siro e con l’Empoli ha dominato. Con l’Empoli, mi sono spiegato?”. Il suo Napoli mi diverte, mi affascina».

Già, però sta dietro alla Juve.

«La Juve è straordina­ria per carattere, per forza fisica, per determinaz­ione. E anche per la storia e per la cultura che appartengo­no a quel club da più di un secolo. Contro il Tottenham hanno fatto un capolavoro, e in Champions possono andare avanti parecchio. Considero Allegri un maestro che ha elevato il tatticismo al massimo livello. Bravo, però si è dimenticat­o della bellezza, dell’armonia, della musica che deve suonare una squadra di calcio».

Esiste, secondo lei, un deficit di tecnica nei giocatori italiani?

«Tecnica di gruppo, non tecnica individual­e. Noi italiani insegniamo ancora la tecnica individual­e, mettiamo i bambini contro un muretto a calciare e stoppare, però non li facciamo interagire tra loro e così non li formiamo. Vi racconto un aneddoto: al Milan, quando si facevano le partitelle di calcio-tennis, nessuno voleva avere in squadra Gullit. Il primo a essere scelto, invece, era Lantignott­i, bravissimo nella tecnica individual­e. Inutile spiegare la differenza tra i due in partita...».

Ci sono, in Italia, allenatori-maestri?

«Ci sono allenatori che si giocano la partita e mi piacciono. Penso a Sarri, ovviamente, a Gasperini, a Giampaolo. A Di Francesco che, pur tra mille difficoltà, sta cercando di creare qualcosa d’importante in un ambiente delicato come Roma. E guardo con interesse quello che stanno facendo Zenga a Crotone e De Zerbi a Benevento».

Riassumend­o, alla vigilia della prima partita del nuovo corso, quali devono essere le nostre priorità?

«Pallone al centro del campo. Creazione delle accademie e delle seconde squadre con limiti d’età. Importanza fondamenta­le nella formazione degli allenatori. Protocollo di lavoro simile per tutti i club. E, per favore, nessun casting per scegliere il commissari­o tecnico».

NO AL CASTING: SI DEVE AVERE UN’IDEA CHIARA E PERSEGUIRE QUELLA

SUL PROSSIMO C.T. CON O DOPO DI BIAGIO

A BILLY HO DETTO: “SPERO TU SIA LÌ PER LAVORARE SUL SERIO”

SU COSTACURTA E LA FIGC MI PIACCIONO SARRI, GASPERINI, GIAMPAOLO: E SEGUO DE ZERBI

SUGLI ALLENATORI-MAESTRI IN SERIE A ALLEGRI? BRAVO MA HA DIMENTICAT­O BELLEZZA E ARMONIA

SUL TECNICO DELLA JUVE E LA CHAMPIONS

RAIOLA DICE CHE LA FIGC FA SCHIFO MA GLI ULTIMI C.T. NON SONO MATTI SULL’AGENTE DI BALOTELLI E LA MANCATA CONVOCAZIO­NE

2 IN ROSSONERO

Le Coppe dei Campioni vinte da Arrigo Sacchi come allenatore del Milan: nel 1989 e nel 1990

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● 1 Arrigo Sacchi, 71 anni, nella redazione della Gazzetta dello Sport● 2 L’ex c.t. davanti al muro delle firme nobili ● 3 Durante il forum con la direzione e i redattori della Gazzetta FOTOSERVIZ­IO BOZZANI

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