La Gazzetta dello Sport

IN ALTO LE SEDIE

La scomparsa di Emiliano Mondonico

- di LUIGI GARLANDO

Non era un gesto di ribellione, era il senso di tutta la sua vita. Le gambe delle sedie sono condannate a toccare terra? E io le porto in cielo.

Non era un gesto di ribellione, era il senso di tutta la sua vita. Le gambe delle sedie sono condannate a toccare terra? E io le porto in cielo. Emiliano Mondonico non è nato per caso in un paese che si chiama Rivolta e che evoca un ribaltamen­to. Nella cavern di Rivolta d’Adda, un vecchio deposito di carbone, il giovane Mondo ballava i Beatles con i capelli lunghi. «Li nascondeva­mo col bavero o dentro la camicia. In paese ci chiamavano vunciuni, per il prete il nostro ritrovo era ‘la casa del peccato’, ma noi volevamo solo stare insieme. I Beatles erano una favolosa energia che riempiva un vuoto e cambiava le cose. Li stavamo aspettando. Eravamo pronti. Fossi nato 10 anni dopo le tensioni di quel periodo, sarei stato un calciatore migliore. Ma non baratterei una carriera migliore con le emozioni vissute in diretta da ragazzo». C’era da capire, cambiare, alzare le sedie. «Abbiamo inserito tra bambini e adulti una nuova generazion­e che per la prima volta osava dire ‘no’ e ‘ma’». Al Toro, nel ‘68, il Mondo ereditò l’armadietto di Gigi Meroni. Un giorno Mondino Fabbri osò un paragone tra i due e Lido Vieri intervenne: «Lasci in pace la memoria di quel ragazzo». Era stravagant­e anche il Mondo. «Ma certi discorsi sulle mie stravaganz­e mi servivano da alibi per nascondere le mie debolezze». Mondonico diventò allenatore. Impugnò la Cremonese come una sedia e la sollevò in serie A dopo 54 stagioni. E poi tirò su anche l’Atalanta, addirittur­a fino a una semifinale di Coppa Coppe; e il Toro, fino a una finale Uefa e a una Coppa Italia vinta. Una lunga carriera sempre in lotta contro i più forti, in un infinito ‘68. Per lui, Toro-Juve era indiani-cowboy. E sempre dalla parte dei talenti più disordinat­i. «Quando Lentini si presentava al Filadelfia con una delle sue giacche strambe, gli dicevo: ‘Bella, Gigi. Domani me ne porti 20 uguali’. Ho una venerazion­e per Vialli e la sua intelligen­za. Quando un allenatore arriva a sera preoccupat­o e ha giocatori così, si sente molto meglio». Prima il giocatore, poi il gioco. Anche se il Mondo condivise il Supercorso con Sacchi e Zeman. «Non capisco come con gli stessi prof e gli stessi libri, siamo arrivati a risultati tanto diversi. Chi non è stato calciatore diventa maniaco per forza». Nel 2012, già malato, prese il Novara e lo portò a vincere a San Siro contro l’Inter. «Visto, Arrigo, che ripartenze? Ma, no... I miei si chiamano contropied­e. Contropied­e e catenaccio. E’ il Dna italiano che ci ha fatto vincere tanto. Non vergogniam­oci. Contro chi è più forte, inutile fare i fenomeni». Gli ultimi suoi giocatori sono stati bambini d’oratorio e reduci da dipendenze. Coi più deboli fino in fondo. L’ultimo catenaccio lo ha organizzat­o contro il cancro: 7 anni in difesa. Emiliano Mondonico è morto, ma non ha perso. Chi ha vissuto come lui, vince sempre. In alto le sedie per il Mondo.

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