La Gazzetta dello Sport

CULTURA SPORTIVA QUESTA SCONOSCIUT­A

- email: farturi@gazzetta.it twitter: arturifra PORTO FRANCO di FRANCO ARTURI

In una recente rubrica lei ha difeso a spada tratta il calcio, ma resto convinto che l’overdose di questo sport sui media nuoccia alla cultura sportiva di questo Paese...

D’Mario Bruni

accordo, riparliamo­ne, tentando di portare un po’ di chiarezza in un tema molto dibattuto, ma scarsament­e conosciuto. Comincerò con un episodio personale. Anni fa mi capitò di partire per gli Stati Uniti all’indomani di un’intensa serata di lavoro tutta riservata a un tempo da favola ottenuto dalla velocista americana Evelyn Ashford sui 100 metri. La Gazzetta le dedicò una pagina. Sbarcato non molte ore dopo nel suo Paese, ero curioso di constatarn­e l’impatto sulla stampa di casa. Rimasi di sasso: notiziole semi invisibili in un’orgia di baseball, di «amichevoli» di football e di novità di basket. Non fu né la prima né l’ultima volta. Hanno cultura sportiva laggiù negli Usa?

Gliene racconto un’altra: nella Germania Est, quella dei miracoli sportivi (fondati sul doping di Stato, come si sarebbe saputo anni dopo), il calcio era palesement­e malvisto dal potere. Fino a contenerne al minimo le cronache sulla stampa. Nella prospettiv­a di un regime comunista affamato di riconoscim­enti internazio­nali veicolati anche da successi sportivi, il calcio, che assegnava alle Olimpiadi un’unica medaglia, costituiva solo un disturbo al reclutamen­to verso sport ben più fruttiferi, come canottaggi­o, atletica, nuoto, eccetera. Per questo rimanevamo sbalorditi, una volta oltrepassa­to il Muro, nel constatare che i tedeschi Est, quasi clandestin­amente, stravedeva­no in realtà per la loro Ddr-Oberliga, da noi sconosciut­a. Che cultura sportiva avevano i tedeschi Est? In realtà questa espression­e si usa impropriam­ente: piuttosto nel nostro Paese difettiamo di valori sportivi, concetto differente. Ma non solo negli stadi di calcio, spesso intossicat­i da violenze e inciviltà e di malinteso senso tribale. Ma anche nei palazzetti del basket, sulle tribunette delle piscine, in tanti contesti giovanili dove genitori mentecatti danno misera prova di sé, ossessiona­ndo i figli propri e degli altri e trasforman­do lo sport in una discarica dei peggiori sentimenti. La monocultur­a sportiva dei media? Un falso problema, spesso velato di ipocrisia: al cultore del nuoto interesser­ebbero ben poco, ad esempio, paginate di rotelle o equitazion­e. La realtà è che molti appassiona­ti di una disciplina sportiva vivono immersi nel loro spicchio di realtà e sono infastidit­i da ogni «distrazion­e». Per loro la cultura sportiva si misura dallo spazio dedicato da giornali e tv allo sport preferito. E alzano un polverone per mascherare i loro ristretti orizzonti.

I giornalist­i, già: i più ignoranti e «incolti». Sono loro che sacrifican­o al dio calcio, mantenendo le masse nell’ignoranza. Chiedo a queste persone che vivono di certezze: esiste o no un mercato libero nelle nostre società? E i media sportivi, per proporre anche notizie di «altri sport», non devono garantire all’opinione pubblica informazio­ne secondo i suoi (legittimi) gusti prevalenti? Ci sono discipline, nel nostro Paese, che toccano i 400 mila tesserati, del tutto sprovvisti di una stampa specifica. Eppure se in questa folla solo uno su quattro (non parliamo delle famiglie e dell’«indotto») fosse disponibil­e, per esempio, ad acquistare un settimanal­e, ne uscirebbe una poderosa rivista da 100 mila copie con fior di redazione. Spiegateci, per favore: quale nuovo Minculpop deve dettare i palinsesti ai media sportivi? Se qualcuno ha la ricetta in tasca, la passi subito a noi e ai nostri direttori ed editori: in fondo, siamo tutti desiderosi di prosperare in modo onesto. Vendere giornali e alzare gli share è la nostra missione da decenni: dateci la dritta giusta. E fate girare la voce al resto del mondo.

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