TONYA, L’ODIO E LO SPORT SPARITO
Se desiderate vedere un film di qualità e denso di spunti di riflessione, ambientato in un contesto di grande sport, il pattinaggio artistico, non fatevi sfuggire «Tonya», da qualche giorno in programmazione in Italia. Se volete invece capire come si è realmente sviluppata la vicenda centrale del film, cioè l’aggressione a Nancy Kerrigan da parte dell’entourage di Tonya Harding, uno dei più grandi scandali della storia dello sport, quest’opera vi porterà fuori strada. La Gazzetta ha già parlato del film, incentrato sul caso che coinvolge due grandi pattinatrici degli anni 80 e 90, attraverso una completa presentazione di Francesco Rizzo nella sezione «Altri mondi»: ne sviluppo alcuni temi-chiave che aprono strade di lettura critica.
Questo non è un giallo, innanzitutto: i colpevoli sono tutti noti e hanno subìto e scontato condanne importanti. E dunque? L’idea di fondo del regista Craig Gillespie (bravo), dello sceneggiatore Steven Rogers e della protagonista Margot Robbie (straordinaria) è in sostanza quella di depotenziare la colpa di Tonya Harding, concedendole ampi alibi personali e sociali: abusi infantili, una madre manesca e dispotica, un marito violento, un ambiente sportivo ostile. Perché, si sostiene nel film, «non esiste un’unica verità» e soprattutto «la gente ha bisogno di qualcuno da odiare». L’arte è una continua scoperta di vita, ma sono dell’opinione, terra terra, che quando si raccontano trame e personaggi che fanno parte di cronaca e storia, è d’obbligo tenersi aderenti ai fatti, altrimenti si finisce per tradire qualcuno o qualcosa. C’è l’invenzione pura, non meno efficace, per evitare rischi.
Il regista ha voluto attori di grande somiglianza fisica ai veri protagonisti: un indizio chiaro del desiderio di vicinanza alla realtà. Poi, però, insieme allo sceneggiatore, ha scelto di intervistare soltanto Tonya e l’ex marito per realizzare il suo film. La madre, LaVona Harding, che nella trama si rende colpevole dei peggiori misfatti, non è stata sentita: le sue parole sono quasi tutte ricostruzioni. Nessuno le ha chiesto se davvero ha lanciato un coltello contro la figlia, colpendola, o se abbia voluto incastrarla registrandone di nascosto in modo ignobile la confessione. La contraddizione è palese: infatti, proprio questa donna è offerta allo spettatore come «qualcuno da odiare», ricadendo nel male dello show-business che si era voluto denunciare.
Nonostante tutto, non nascondo una certa simpatia per Tonya, soprattutto per la capacità di resistere alle tranvate del destino e a sopravvivere ai suoi stessi misfatti: simbolicamente forte la scena di come la ragazza si rialza dopo un k.o. sul ring, esperienza sportiva seguita alla sua squalifica a vita dal pattinaggio. Il senso di tristezza per il suo percorso di tribolazioni è in fondo un tributo a lei stessa, direi doveroso. Ma questa solidarietà non può estendersi a uno scarico di responsabilità per ragioni socio ambientali. La verità ha tante sfaccettature, ma resta una. C’era un altro modo per rendere «giustizia» a questo controverso personaggio: raccontare davvero della sua carriera, che l’ha portata comunque ad essere una delle più forti atlete del mondo. Anni di allenamenti e sacrifici, successi, cadute, rapporti con allenatrici, tutto all’interno di regolamenti rispettati e di un percorso comune a tanti atleti di vertice. Era questo il mondo di Tonya: nel film vi si accenna appena, senza alcun desiderio di approfondire. Quali erano le motivazioni e i sogni di questa ragazza? Quanto è stata felice mentre pattinava? Che cosa ha pagato per raggiungerli? Un film che nasce dallo sport dove lo sport è quasi assente, ma è usato per altri fini, mi lascia sempre un retrogusto amaro.