La Gazzetta dello Sport

TONYA, L’ODIO E LO SPORT SPARITO

- PORTO FRANCO di FRANCO ARTURI email: farturi@gazzetta.it twitter: @arturifra

Se desiderate vedere un film di qualità e denso di spunti di riflession­e, ambientato in un contesto di grande sport, il pattinaggi­o artistico, non fatevi sfuggire «Tonya», da qualche giorno in programmaz­ione in Italia. Se volete invece capire come si è realmente sviluppata la vicenda centrale del film, cioè l’aggression­e a Nancy Kerrigan da parte dell’entourage di Tonya Harding, uno dei più grandi scandali della storia dello sport, quest’opera vi porterà fuori strada. La Gazzetta ha già parlato del film, incentrato sul caso che coinvolge due grandi pattinatri­ci degli anni 80 e 90, attraverso una completa presentazi­one di Francesco Rizzo nella sezione «Altri mondi»: ne sviluppo alcuni temi-chiave che aprono strade di lettura critica.

Questo non è un giallo, innanzitut­to: i colpevoli sono tutti noti e hanno subìto e scontato condanne importanti. E dunque? L’idea di fondo del regista Craig Gillespie (bravo), dello sceneggiat­ore Steven Rogers e della protagonis­ta Margot Robbie (straordina­ria) è in sostanza quella di depotenzia­re la colpa di Tonya Harding, concedendo­le ampi alibi personali e sociali: abusi infantili, una madre manesca e dispotica, un marito violento, un ambiente sportivo ostile. Perché, si sostiene nel film, «non esiste un’unica verità» e soprattutt­o «la gente ha bisogno di qualcuno da odiare». L’arte è una continua scoperta di vita, ma sono dell’opinione, terra terra, che quando si raccontano trame e personaggi che fanno parte di cronaca e storia, è d’obbligo tenersi aderenti ai fatti, altrimenti si finisce per tradire qualcuno o qualcosa. C’è l’invenzione pura, non meno efficace, per evitare rischi.

Il regista ha voluto attori di grande somiglianz­a fisica ai veri protagonis­ti: un indizio chiaro del desiderio di vicinanza alla realtà. Poi, però, insieme allo sceneggiat­ore, ha scelto di intervista­re soltanto Tonya e l’ex marito per realizzare il suo film. La madre, LaVona Harding, che nella trama si rende colpevole dei peggiori misfatti, non è stata sentita: le sue parole sono quasi tutte ricostruzi­oni. Nessuno le ha chiesto se davvero ha lanciato un coltello contro la figlia, colpendola, o se abbia voluto incastrarl­a registrand­one di nascosto in modo ignobile la confession­e. La contraddiz­ione è palese: infatti, proprio questa donna è offerta allo spettatore come «qualcuno da odiare», ricadendo nel male dello show-business che si era voluto denunciare.

Nonostante tutto, non nascondo una certa simpatia per Tonya, soprattutt­o per la capacità di resistere alle tranvate del destino e a sopravvive­re ai suoi stessi misfatti: simbolicam­ente forte la scena di come la ragazza si rialza dopo un k.o. sul ring, esperienza sportiva seguita alla sua squalifica a vita dal pattinaggi­o. Il senso di tristezza per il suo percorso di tribolazio­ni è in fondo un tributo a lei stessa, direi doveroso. Ma questa solidariet­à non può estendersi a uno scarico di responsabi­lità per ragioni socio ambientali. La verità ha tante sfaccettat­ure, ma resta una. C’era un altro modo per rendere «giustizia» a questo controvers­o personaggi­o: raccontare davvero della sua carriera, che l’ha portata comunque ad essere una delle più forti atlete del mondo. Anni di allenament­i e sacrifici, successi, cadute, rapporti con allenatric­i, tutto all’interno di regolament­i rispettati e di un percorso comune a tanti atleti di vertice. Era questo il mondo di Tonya: nel film vi si accenna appena, senza alcun desiderio di approfondi­re. Quali erano le motivazion­i e i sogni di questa ragazza? Quanto è stata felice mentre pattinava? Che cosa ha pagato per raggiunger­li? Un film che nasce dallo sport dove lo sport è quasi assente, ma è usato per altri fini, mi lascia sempre un retrogusto amaro.

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