Lauro ordina, Vinicio sbanca Torino
●Metropoli sotto pressione, il sindaco-presidente arringa la squadra: serve un risultato che riscatti la città. E «’o Lione»...
Il 22 ottobre 1957, un martedì, il Comandante Achille Lauro, nella doppia funzione di sindaco e di proprietario della squadra, si presentò al campo d’allenamento del Napoli e tenne una memorabile sfuriata contro i giocatori e l’allenatore, colpevoli di aver perso malamente, la domenica precedente, in trasferta contro la Lazio. Concluse il discorso promettendo punizioni severe e se ne andò dicendo: «Voi rappresentate un’intera città, non dovete mai dimenticarlo». E proprio questo era il cuore del suo ragionamento: Napoli stava vivendo giorni infuocati, anche a causa della sua dissennata politica basata sul favore e sulla raccomandazione, il governo aveva mandato gli ispettori per verificare i conti, si parlava di truffe nei bilanci comunali, di soldi spariti e appalti truccati. Il calcio, nell’idea del Comandante, poteva rappresentare un motivo di riscatto verso coloro che continuavano a vedere Napoli come terra del malaffare. Il popolo si era immediatamente schierato dalla sua parte, anche perché tutti, chi più e chi meno, gli doveva qualcosa: il posto fisso in un ufficio, un sussidio, una pensione. I giocatori, da Vinicio a Novelli, da Di Giacomo a Bugatti, insieme con l’allenatore Amadei capirono il senso delle parole del Comandante, si tirarono su le maniche e iniziarono la risalita. Il 24 novembre, al Comunale di Torino, la prova della verità contro la Juve di Boniperti-Charles-Sivori. Era l’occasione per dimostrare che Napoli aveva sì grandi problemi economici e sociali, ma sapeva anche produrre bellezza.
INTERVENTO Per tutta la settimana che precedette l’evento il Comandante non si fece vedere al campo d’allenamento: non era un esercizio scaramantico, semplicemente non voleva turbare la concentrazione dei giocatori. S’informava, attraverso il magazziniere o il massaggiatore, su come andava la preparazione e quando seppe che il portiere Bugatti si era preso una brutta influenza e aveva più di 38 di febbre sprofondò nella depressione. Parlò con Amadei e, per quanto di tecnica calcistica poco conoscesse, gli suggerì di badare al sodo: «Faccia pure catenaccio, l’importante è che usciamo vivi da Torino». Amadei lo prese in parola, organizzò le marcature a uomo su Boniperti, Charles e Sivori, e... si affidò a San Gennaro: che almeno facesse passare la febbre a Bugatti! Le preghiere servirono a poco: la domenica mattina il termometro segnava 38,2. Ma Bugatti non si arrese e giocò.
COMIZIO Mentre gli juventini erano sicuri della propria forza, il Comandante uscì dall’albergo di Torino per recarsi al Teatro Alfieri: lì, in qualità di presidente del Partito Monarchico Popolare, avrebbe tenuto un comizio. Di fronte a una platea osannante criticò il governo, auspicò il ritorno in Italia delle salme del Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena, sostenne la necessità di formare una «grande destra» e poi, dopo aver stretto mille e più mani, si fece accompagnare allo stadio Comunale. All’autista chiese: «Bugatti come sta?». «Gioca» fu la risposta. Il Comandante si sentiva più tranquillo. E la serenità aumentò quando, dopo 10 minuti del primo tempo, Luis Vinicio mise dentro il gol dell’1-0. Meraviglioso, il progetto di riscatto si stava avverando, e la fiducia non s’incrinò nemmeno dopo il pareggio di Charles, in avvio di ripresa. Bugatti, sulla conclusione del centravanti, proprio non poteva arrivarci, ma per il resto aveva respinto tutto quello che poteva, e di sicuro avrebbe continuato. Previsione corretta: il portiere volò da un palo all’altro, neanche fosse un gatto, per ribattere gli attacchi juventini. In coda alla partita prima Novelli e poi Di Giacomo posero i sigilli definitivi. Il Napoli sbancò Torino, 3-1, e attraverso il calcio si riprese quell’onore che la politica gli aveva sottratto.