SHERPA E ALPINISTI: DUE MONDI CHE RACCONTO NEL MIO FILM
«The Holy Mountain» al Festival di Trento
È
domenica e scrivo prima di andare in televisione da Fabio Fazio, a «Che tempo che fa». A parlare del mio secondo film, «The Holy Mountain» - cioè l’Ama Dablam, che è appunto la montagna sacra degli sherpa - e del Film Festival di Trento dove, fra una settimana, ci sarà la prima mondiale di questo lavoro al quale tengo molto. Perché non racconta solo storie - vissute - di alpinismo, ma anche di due modi diversi di rapportarsi con la montagna e la natura in senso lato. Da una parte appunto il popolo degli sherpa, arrivati nella regione del Khumbu dal Tibet. Loro nella vetta del bellissimo Ama Dablam vedono la dimora degli dei. Dall’altra parte gli alpinisti: per loro quella cima non è niente più di un punto da raggiungere.
Sono appena rientrato proprio dal Nepal. Quaranta anni fa, nell’ambito di una spedizione austriaca, Peter Habeler e io fummo i primi a salire l’Everest senza utilizzare le bombole con l’ossigeno artificiale. Tutti noi, membri di quell’avventura ancora in vita, otto su dodici, siamo stati festeggiati a Kathmandu per quella salita che fece storia, perché smentì le convinzioni degli scienziati. Siamo anche andati al campo base dell’Everest. E’ più piccolo rispetto agli anni passati: meno tende. Molti non sono ancora arrivati. L’ultima moda è quella di giungere in Nepal già acclimatati grazie alle tende ipossiche. Così si può sbarcare direttamente al campo base in elicottero, saltando i giorni del trekking. Ma si perde totalmente il contatto con la cultura locale. Che per me è fondamentale. Infatti ciò che più mi ha dato soddisfazione in questo viaggio è l’aver inaugurato la nuova e bella clinica nel villaggio di Khunde, che era stata distrutta dal terremoto del 2015.