La Gazzetta dello Sport

ALLEGRI, D’ANTONI E I COACH CAPARBI

Lettere alla Gazzetta

- PORTO FRANCO di FRANCO ARTURI email: farturi@rcs.it twitter: @arturifra

Vi segnalo che un cospicuo gruppo di juventini bresciani inizierà la raccolta di firme per la «fuoriuscit­a», la più rapida possibile, di Mister Allegri. La stragrande maggioranz­a dei cuori bianconeri non condivide la consideraz­ione che molti addetti ai lavori hanno di lui: un allenatore che in Italia comanda una corazzata, se rapportata al valore della rosa di ogni altra squadra, e si accontenta di puntare allo 0-0 per amministra­re il vantaggio di 4 punti, non merita di restare. Guida una squadra che attacca con aggressivi­tà solo in partite da dentro o fuori.

Maurizio Agretti

Al risveglio, come ogni mattina, guardo i risultati della Nba della notte e questa volta mi ritrovo i 50 punti in un quarto segnati dagli Houston Rockets di Mike D’Antoni, di cui sono un tifoso sfrenato da decenni. È suo il basket più fresco e moderno del momento?

Marco Sangrado

Metto insieme queste due lettere di diversissi­ma estrazione per qualche punto di contatto che intravedo sul mestiere di allenatore ad alto livello. Primo: i convincime­nti tattico-estetici profondi rimangono gli stessi durante tutta la carriera. L’evoluzione si mantiene nel solco di un indirizzo preciso. Quanto sono cambiati negli anni i modi di giocare delle squadre di Zeman, Mazzarri, Mourinho, Wenger? Ben poco. Se andava bene l’Allegri dei tre scudetti, delle tre Coppe Italia e delle due finali di Champions, mi sembra ingeneroso affossarlo oggi. E anche imprudente, visto che i due obbiettivi italiani sono ancora a portata di mano. Certo: le convinzion­i ideologico-calcistich­e sono quelle e non muteranno. Anche la sua Juve sa giocar bene e quando lo fa vince, circo o non circo; al contrario, quando si esprime male o con fatica, spesso perde punti per strada. Per possesso palla, aggression­e continua, propositiv­ità costante, bisogna rivolgersi altrove. Consideran­do che pure Guardiola perde, a volte.

Mike D’Antoni ha deciso da una vita che il basket più efficace e divertente, e comunque il suo, è quello del tiro rapidissim­o, del bombardame­nto da tre, del gioco affidato all’estro dei suoi mostruosi playmaker guastatori: Harden, soprattutt­o, e Paul. I suoi Phoenix dei primi anni duemila hanno aperto una strada, che stanno seguendo molti. Come molti ex grandi giocatori (in Italia Recalcati e Sacchetti, per esempio), ha più fiducia nell’istinto dei suoi campioni che non in schematism­i rigidi: un’altra discrimina­nte di «scuola» rispetto a tecnici che impongono in modo più forte la loro mano nello sviluppo del gioco. Anche qui: si discute da un secolo su quale sia la strada migliore, ma nessuno ha potuto dire la parola definitiva. D’Antoni, insieme a Ettore Messina, è ancor più dissacrant­e rispetto al suo habitat americano perché ha dimostrato al mondo ultracompe­titivo della Nba che si può imparare l’arte in Italia (dove Mike ha esordito come allenatore, disputando­vi sette stagioni a Milano e Treviso) e diventare dominanti negli Usa. Un’iniezione di fiducia per il nostro basket tremolante degli ultimi anni: non siamo precipitat­i all’improvviso nel terzo mondo cestistico. Infine un altro luogo comune sfatato: D’Antoni sta per compiere 67 anni, un’età nella quale tanti conformist­i nostrani ritengono un tecnico «bollito» o non più in grado di sentire la carica agonistica e l’energia per domare i leoni nell’arena. Quest’ultima è una delle etichette più escludenti e insensate nel mondo dello sport. E sul versante, bisogna riconoscer­e che negli Usa sono molto più avanti di noi: lì le leggende non hanno età.

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy