ALLEGRI, D’ANTONI E I COACH CAPARBI
Lettere alla Gazzetta
Vi segnalo che un cospicuo gruppo di juventini bresciani inizierà la raccolta di firme per la «fuoriuscita», la più rapida possibile, di Mister Allegri. La stragrande maggioranza dei cuori bianconeri non condivide la considerazione che molti addetti ai lavori hanno di lui: un allenatore che in Italia comanda una corazzata, se rapportata al valore della rosa di ogni altra squadra, e si accontenta di puntare allo 0-0 per amministrare il vantaggio di 4 punti, non merita di restare. Guida una squadra che attacca con aggressività solo in partite da dentro o fuori.
Maurizio Agretti
Al risveglio, come ogni mattina, guardo i risultati della Nba della notte e questa volta mi ritrovo i 50 punti in un quarto segnati dagli Houston Rockets di Mike D’Antoni, di cui sono un tifoso sfrenato da decenni. È suo il basket più fresco e moderno del momento?
Marco Sangrado
Metto insieme queste due lettere di diversissima estrazione per qualche punto di contatto che intravedo sul mestiere di allenatore ad alto livello. Primo: i convincimenti tattico-estetici profondi rimangono gli stessi durante tutta la carriera. L’evoluzione si mantiene nel solco di un indirizzo preciso. Quanto sono cambiati negli anni i modi di giocare delle squadre di Zeman, Mazzarri, Mourinho, Wenger? Ben poco. Se andava bene l’Allegri dei tre scudetti, delle tre Coppe Italia e delle due finali di Champions, mi sembra ingeneroso affossarlo oggi. E anche imprudente, visto che i due obbiettivi italiani sono ancora a portata di mano. Certo: le convinzioni ideologico-calcistiche sono quelle e non muteranno. Anche la sua Juve sa giocar bene e quando lo fa vince, circo o non circo; al contrario, quando si esprime male o con fatica, spesso perde punti per strada. Per possesso palla, aggressione continua, propositività costante, bisogna rivolgersi altrove. Considerando che pure Guardiola perde, a volte.
Mike D’Antoni ha deciso da una vita che il basket più efficace e divertente, e comunque il suo, è quello del tiro rapidissimo, del bombardamento da tre, del gioco affidato all’estro dei suoi mostruosi playmaker guastatori: Harden, soprattutto, e Paul. I suoi Phoenix dei primi anni duemila hanno aperto una strada, che stanno seguendo molti. Come molti ex grandi giocatori (in Italia Recalcati e Sacchetti, per esempio), ha più fiducia nell’istinto dei suoi campioni che non in schematismi rigidi: un’altra discriminante di «scuola» rispetto a tecnici che impongono in modo più forte la loro mano nello sviluppo del gioco. Anche qui: si discute da un secolo su quale sia la strada migliore, ma nessuno ha potuto dire la parola definitiva. D’Antoni, insieme a Ettore Messina, è ancor più dissacrante rispetto al suo habitat americano perché ha dimostrato al mondo ultracompetitivo della Nba che si può imparare l’arte in Italia (dove Mike ha esordito come allenatore, disputandovi sette stagioni a Milano e Treviso) e diventare dominanti negli Usa. Un’iniezione di fiducia per il nostro basket tremolante degli ultimi anni: non siamo precipitati all’improvviso nel terzo mondo cestistico. Infine un altro luogo comune sfatato: D’Antoni sta per compiere 67 anni, un’età nella quale tanti conformisti nostrani ritengono un tecnico «bollito» o non più in grado di sentire la carica agonistica e l’energia per domare i leoni nell’arena. Quest’ultima è una delle etichette più escludenti e insensate nel mondo dello sport. E sul versante, bisogna riconoscere che negli Usa sono molto più avanti di noi: lì le leggende non hanno età.