La Gazzetta dello Sport

Tebas: «Diritti tv e stipendi La Serie A si rialza così»

IL NUMERO 1 DELLA LIGA: «SE L’ITALIA NON STA AL PASSO CON GLI ALTRI VUOL DIRE CHE QUALCOSA NON FUNZIONA. RIDUCETE GLI INGAGGI E INVESTITE SUGLI STADI»

- L’INTERVISTA di FILIPPO MARIA RICCI CORRISPOND­ENTE DA MADRID @filippomri­cci

L’Italia? Era una sfida importante Salto di qualità con meno soldi ai giocatori

Giovedì, quando abbiamo parlato con Javier Tebas, il presidente della Liga festeggiav­a i 5 anni alla guida del calcio spagnolo. Un movimento che Tebas ha cambiato radicalmen­te modernizza­ndolo, arricchend­olo, tirandolo su da un pozzo di debiti. Per questo in Italia si è pensato a lui per provare a uscire dalla crisi attuale.

Anche se in Spagna c’è ancora chi dice che dall’Italia non le avevano offerto nulla, che la sua è stata solo una mossa per farsi alzare lo stipendio.

«Lasciamoli dire, sono pochi e non sono mai stati granché a mio favore. L’interesse c’era, ed era mutuo».

Lei è fortemente legato alla Spagna, qui ha tutto o quasi. Perché voleva andare in Italia dove regna una discreta confusione, a voler essere benevoli?

«Perché era una sfida importanti­ssima e perché credo che il calcio italiano abbia immense possibilit­à di crescita. Pensavo che con il metodo applicato qui in Spagna e un certo tipo di guida si sarebbero potute fare cose impression­anti. Paragonand­o l’industria calcio italiana con quelle di altri Paesi come Spagna, Inghilterr­a o Germania ci si rende immediatam­ente conto che il margine di crescita della Serie A è amplissimo. È indubbio che non si sta lavorando bene visto che non si riesce a star dietro al ritmo di crescita degli altri».

Ha studiato il caso Italia in profondità o solo in maniera superficia­le?

«In profondità, concentran­domi sui valori dell’industria calcio, sulla strategia nazionale e internazio­nale necessaria per la sua crescita economica, soprattutt­o legata allo sfruttamen­to dei diritti audiovisiv­i. Col numero di abitanti, col ratio di penetrazio­ne della tv a pagamento, con lo spettro di clienti appassiona­ti al nostro sport, il calcio italiano deve per forza raccoglier­e molto di più, fare molti più soldi».

Altri settori d’intervento immediato che aveva individuat­o?

«Su un piano commercial­e, la gestione dei diritti tv a livello internazio­nale. La marca Serie A nel mondo ha ancora un buon valore ed è un prodotto che si consuma in tanti Paesi però è necessario approntare una strategia geolocaliz­zata, Paese per Paese. L’attuale modello di vendita globale va assolutame­nte cambiato: ogni Paese dev’essere trattato con una strategia propria, mirata, elaborata riunendosi con ognuno degli operatori locali. Noi per esempio come Liga all’estero abbiamo 70 contratti differenti».

Altre cose?

«La variazione del sistema di controllo economico delle società. Il rapporto tra massa salariale e introiti nel calcio italiano è molto ‘stressato’. La Serie A in questo senso è il campionato che ha il rapporto peggiore, seguito dalla Premier League e poi da Liga e Bundesliga. Quando dico stressato intendo dire che nel calcio italiano si sta spendendo in salari più di ciò che si dovrebbe e che parte di quel denaro andrebbe investito nel rinnovamen­to delle installazi­oni e nel migliorame­nto delle strutture, fattori che contribuis­cono in maniera significat­iva all’incremento degli affari di un club. Se abbassi la massa salariale puoi investire in settori che ti faranno incassare di più permettend­oti così di poter alzare di nuovo gli stipendi. La riforma degli stadi è fondamenta­le ma finché il monte salariale pesa tanto sui bilanci del club è difficile che i club possano muoversi in quella direzione».

La Liga in Spagna multa i club che non riempiono gli stadi. In Italia riempirebb­e le proprie casse rapidament­e. Cos’aveva pensato in proposito?

«Innanzitut­to è fondamenta­le migliorare il pacchetto audiovisiv­o creando un ”prodotto Serie A”, identifica­bile e identifica­to. La Serie A è composta da 380 partite e hanno tutte lo stesso valore. È ovvio che ci sono gare più importanti di altre, ma il prodotto dev’essere concepito, realizzato e commercial­izzato nel suo insieme, solo così il valore complessiv­o può aumentare. Poi è chiaro che gli stadi vanno migliorati, tanto per chi li frequenta come per chi se li deve godere a livello audiovisiv­o.

Per questo dico che il prodotto deve incrementa­re il proprio valore: solo così i club potranno investire negli stadi, contribuen­do al migliorame­nto del prodotto stesso e facendo che la gente vada più volentieri allo stadio. È una catena. E qui bisogna pensare anche al fenomeno Ultras».

Che in Italia è ancora un problema.

«Bisogna decidere che tipo di competizio­ne si vuole, cosa si desidera vedere in uno stadio: se puntiamo su un modello di ozio ed entertainm­ent gli stadi devono essere luoghi di concordia e divertimen­to, non di lotta, aggression­e e violenza verbale. Occhio, questo non vuol dire che non si faccia il tifo o che non ci sia ambiente, tutt’altro, solo che vanno eliminate provocazio­ni, insulti e violenza che evidenteme­nte non permettono al nostro spettacolo di crescere. Però bisogna chiedersi se il calcio italiano vuole davvero andare in questa direzione».

Il fatto che gli stadi italiani non siano di proprietà dei club viene considerat­o un grosso ostacolo in tema di ristruttur­azione.

«È un falso problema, e non può essere una scusa: si possono fare accordi con le amministra­zioni cittadine, modernizza­zione degli impianti in cambio di una concession­e più lunga o altri benefici. Che gli stadi non siano di proprietà non deve rappresent­are una scusa perché non vengano avviati processi di ristruttur­azione. A me questo sembra

un concetto antiquato».

Con quanti club italiani ha parlato prima di prendere la sua decisione?

«Quattordic­i. Con alcune società più in profondità, con altre meno. Tutti avevano ben chiaro il fatto che il calcio italiano ha bisogno di un cambio radicale. E la necessità d’intervenir­e urgentemen­te perché le altre leghe europee stanno accumuland­o un gran vantaggio su quello che fino a 15 anni fa era il miglior campionato del mondo. Di certo c’è che non si può continuare così, con questo senso di paralizzaz­ione in primis nel modello di sfruttamen­to dei diritti audiovisiv­i. Le società italiane questo lo sanno molto bene, però fanno fatica a fare il primo passo per avviare il cambio radicale. Non è positivo per nessuno che un Paese come l’Italia, parte importante del nostro business, vada male, non funzioni. La cosa mi preoccupa».

Parliamo della questione Mediapro-Sky. Che idea si è fatto?

«Ciò che vedo in Italia è ciò che è successo a lungo qui in Spagna: i grandi operatori che per anni hanno avuto in mano i diritti del calcio fanno fatica a capire ed accettare che il modello sta cambiando. Sky si è risentita e ha iniziato a fare azioni e querele che hanno poco senso perché se Sky volesse davvero che il calcio italiano crescesse come dovrebbe si sarebbe seduta a un tavolo con Mediapro e la Lega italiana per elaborare una strategia e un progetto comune per il futuro. Le società italiane si devono chiedere come mai Sky cinque mesi prima del bando per la Serie A abbia alzato il prezzo per i diritti della Champions ribassando poi di quasi 200 milioni quello per il prodotto nazionale. Poi si devono chiedere come mai una volta entrata Mediapro, Sky abbia mostrato disponibil­ità ad offrire più soldi e a lottare per recuperare i diritti perduti. Non ha senso. I club italiani, come abbiamo fatto qui in Spagna, devono capire che questo dev’essere un business per tutti e non solo per uno dei protagonis­ti, e non credere al messaggio che l’operatore televisivo non è in grado di pagare di più. Io conosco i numeri del calcio italiano e posso assicurare che non è così: c’è ampio margine di crescita. Noi in Spagna questo discorso del “siamo al limite, non possiamo offrire di più” lo ascoltavam­o dal 2002, ad ogni bando, ad ogni trattativa. E non era così. Il mercato diceva un’altra cosa. L’ampliazion­e del mercato, la penetrazio­ne dello stesso, il migliorame­nto della broadband, la crescita delle cosidette società OTT (OverThe-Top, le imprese che forniscono via Internet, servizi e contenuti, soprattutt­o video, ndr.) ...non è che Javier Tebas si è alzato una mattina e ha deciso che le tv dovevano pagare di più. Sono i numeri del mercato a dare indicazion­i precise. Con uno sfruttamen­to normale e razionale il calcio italiano deve incassare molto, molto di più. E poi se la Serie A vale così poco perché Sky non lascia che lavori Mediapro? Vogliono solo mantenere la posizione di privilegio e di controllo sul prodotto più importante che hanno nella propria piattaform­a. Ritengo che Sky creda ancora molto nel prodotto A ma lo voglia pagare meno di quanto vale, a detrimento dei club».

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JAVIER TEBAS/2 SUI NETWORK ITALIANI
IL CALCIO IN TV? SKY VUOLE DIFENDERE IL SUO PRIVILEGIO JAVIER TEBAS/2 SUI NETWORK ITALIANI
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JAVIER TEBAS/1 SUGLI STADI
GLI IMPIANTI NON DEI CLUB? FALSO PROBLEMA, BASTA ACCORDARSI JAVIER TEBAS/1 SUGLI STADI
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Javier Tebas, 55 anni GETTY

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