La Gazzetta dello Sport

DA CARLOS A HENRY SE CEDERE FA MALE

L’ultimo caso riguarda Salah

- LA ROVESCIATA di ROBERTO BECCANTINI

Mohamed Salah non fu capito da José Mourinho che, al Chelsea, si era perso anche Kevin De Bruyne, poi «surfista» tra le onde del Manchester City. Scagli la prima pietra chi. La Roma, se non altro, si è sbarazzata dell’egiziano per problemi di bilancio: Monchi dixit. Ed è già tanto che, al termine del mercato invernale, sia riuscita a tenersi Edin Dzeko. Ci riuscì, per la cronaca, in maniera abbastanza singolare: al momento della firma (con il Chelsea), il giocatore si tirò indietro.

Fresco di Arsenal, Arsène Wenger si fece comprare uno scarto della Juventus e lo trasformò in Thierry Henry. Eppure non è che a Torino, all’epoca, gli allenatori fossero mediocri (Marcello Lippi e Carlo Ancelotti, niente meno) o l’apparato miope (Luciano Moggi, niente più). Scoperto proprio da Wenger, Henry giocava nel Monaco con David Trezeguet. Arrivò nel gennaio del 1999, per ovviare alla perdita di Alessandro Del Piero che a novembre, a Udine, si era fracassato il ginocchio sinistro. Era una Juventus di passaggio tra un ciclo e l’altro, sazia e confusa. E Henry una punta che, prima di diventare centrale e «unica» in senso tecnico e geografico, sprofondò alla periferia di Filippo Inzaghi. Tradotto male dal francese, poco ispirato. Vogliamo parlare di Roberto Carlos? Sbocciò nel Palmeiras, la «Palestra Italia» di San Paolo che aveva forgiato, tra gli altri, José Altafini. L’Inter lo prelevò nel 1995, aveva 22 anni, era un terzino sinistro con un cannone nascosto nelle scarpe. Restò una stagione, una sola. C’è chi dice per ragioni economiche e chi per dissensi tattici: troppo attaccante, Roy Hodgson l’avrebbe preferito ala. Massimo Moratti lo vendette, così, al Real Madrid. Morale di un decennio: 4 «scudetti», 3 Champions, 2 Interconti­nentali; più coppe varie; più, con la Nazionale brasiliana, il Mondiale del 2002. Però. Meglio lui o Marcelo? Roberto Carlos era un carro armato che tirava lecche impression­anti. Non un lucchetto in fase difensiva, ma molto verticale, molto diretto. E vi raccomando le punizioni. Quella contro la Francia, nel 1997 a Lione, sembrava destinata a morire fuori dello stadio: girò all’improvviso e planò alle spalle di un Fabien Barthez che aveva supplicato la distanza di sostituirs­i alla barriera. La parabola incuriosì persino gli scienziati. Di gol ne segna anche Marcelo, l’ultimo al Bayern, ma è meno esplosivo. In compenso, rispetto a Roberto Carlos, è più numero dieci, più regista, un po’ come Dani Alves - sul versante destro - ai bei tempi del tiki taka e negli spiccioli spesi alla Juventus. Chi scrive, vota Roberto Carlos. Al Barcellona, Pep Guardiola sacrificò fior di attaccanti, su tutti Zlatan Ibrahimovi­c e Samuel Eto’o, pur di spalancare il cuore dell’area a Leo Messi, una scintilla che ha pagato e continua a pagare, chiunque sia il compagno di reparto, da Neymar a Luis Suarez, o l’allenatore, da Luis Enrique a Ernesto Valverde.

Era a fine contratto, Andrea Pirlo, quando il Milan di Adriano Galliani e Massimilia­no Allegri decise di mollarlo. I soldi non c’entravano. Si trattò, banalmente, di una valutazion­e. Il divorzio premiò la Juventus, alla quale Pirlo avrebbe regalato gli ultimi quadri di una straordina­ria galleria.

Se di mezzo c’è il fair play finanziari­o, come nel caso di Salah, per carità. Ma se alla base di certe manovre subentrano fisime, calcoli, deliri di onnipotenz­a, be’, turarsi il naso non basta, non aiuta a giustifica­re lo smacco. Per Silvano Ramaccioni, che scortò il Perugia degli imbattuti e il Milan fusignanis­ta, «si può sbagliare un acquisto, non una cessione». Grande.

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