QUANDO LE SCUSE SONO UN’EPIDEMIA
Riflessioni su una «moda»
Chiede scusa ai tifosi Sarri, alla tosco-napoletana. L’aveva anticipato Hamsik dopo la scoppola col Lipsia. Quello degli scusatori è un elenco lunghetto. «Ci mette la faccia» Pianigiani, il tecnico dell’Olimpia basket: pronte le sue penitenti scuse. Si accoda anche il suo collega di sport Sacripanti, dell’Avellino: «Siamo stati indegni, chiedo scusa ai tifosi». Gattuso le ringhia le scuse, naturalmente, ma sempre quello è: controcanto di Mirabelli, coro di Donnarumma (coi tifosi napoletani). Le offre Lopez del Cagliari. Dopo Salisburgo, si scusa, anche a nome dei compagni della Lazio, Luis Alberto. Non conto più quante volte si è scusata l’Inter di questa stagione. Chiede scusa a gesti Salah, dopo ogni gol alla Roma, sua ex squadra. Poteva non farlo Oddo per i rovesci dell’Udinese? Non sia mai: è persona compitissima. Poi ricorderete Quagliarella dopo il patatrac con l’Inter: stesse parole. Mi devo fermare per non esaurire tutto lo spazio a disposizione: le scuse post crollo sportivo sono un’epidemia dei tempi moderni.
Forse qualcuno ha suggerito ai nostri eroi che quella parolina magica, scusa, diminuisce la portata di una sconfitta, previene l’ira funesta del popolo, sostiene il senso di responsabilità traballante, pulisce i peccati come una confessione, lenisce le ferite agonistiche. Sono solo illusioni, per di più cariche di rischi impliciti. Per esempio quello di considerare i tifosi bambini piagnucolosi da consolare o, peggio, belve scatenate da mettere in sicurezza. Scuse di che, poi? Nello sport esistono le giornatacce, gli stati di grazia degli avversari, le tempeste perfette di eventi sfortunati. Fanno male, ma non contengono in sé nulla di eticamente rilevante. Me lo ricordava Ettore Messina, nostro grande coach d’esportazione, in una recente conversazione, rievocando episodi della sua lunga carriera, accaduti a Madrid, l’unica tappa un po’ deludente del suo percorso. «Accadeva spesso, dopo una nostra sconfitta, che i dirigenti chiedessero perdono alla tifoseria a mezzo stampa. Io diventavo matto. La mia reazione era tutta un’altra: ci abbiamo provato, abbiamo dato tutto e abbiamo perso. Punto».
Sembrerebbe elementare, a meno che si consideri la vittoria una sorta di comandamento divino, un destino ineluttabile. L’unica cosa che conta, appunto. Ma questo non è sport, piuttosto una sua aberrante caricatura. Senza contare l’indirizzo delle scuse. Uno potrebbe pensare che un campione strapagato, dopo una sua pesante caduta, possa nel caso scusarsi con se stesso, l’allenatore, i compagni, la moglie, il figlioletto. Macché, gli viene in mente di scusarsi con i tifosi, come se fossero loro i padroni dell’anima, gli esploratori delle coscienze, i manovratori dei sentimenti. Non lo sono. Lo sport è di tutti: di chi lo fa, di chi lo produce e di chi lo segue con entusiasmo. Esistono poi due categorie di tifosi: la prima, minoritaria, ma rumorosamente presente, è quella che si raduna in plotoni aggressivi e corre ai centri di allenamento per vomitare insulti e intimidazioni sui suoi amati campioni se gli sembra che «non tirino fuori gli attributi». Be’, questa tipologia di tifosi le scuse le dovrebbe porgere, più che ricevere. Non si tratta di interlocutori credibili. C’è poi l’altra categoria di appassionati, molto maggioritaria, composta da gente emotivamente matura, che magari ha fatto un po’ di sport e conosce sudore e fatica. Questo tipo di pubblico sa farsi una ragione di eventi che sono nella natura delle cose. Sono tifosi che vanno a letto un po’ tristi talvolta tornando dallo stadio, ma che sono d’accordo con Rudyard Kipling: «Abbiamo 40 milioni di ragioni per fallire, ma non una sola scusa».