«Bravo Matteo! Un grande segnale» È SPUMEGGIANTE UNA PALLINA DA FLIPPER: MI PIACE COME GIOCA DINO MENEGHIN SU AMEDEO DELLA VALLE
●«Peccato non lo abbia preso un’italiana, speriamo che lo facciano diventare forte, ci servirà in azzurro»
Il gigante e il bambino. Da una parte Dino Meneghin, 68 anni, il passato più splendente del nostro basket. Dall’altra Matteo Spagnolo, 14, la grande speranza per il futuro azzurro. Partiamo da ieri, dal monumento della pallacanestro italiana.
Dino Meneghin, oggi guarda il basket italiano e vede?
«La forza delle cosiddette provinciali che riemerge dopo tanti anni: Venezia, Trento, Brescia. Società costruite nel tempo con piccoli passi ogni stagione, costruzioni di squadre che non siano meteore ma possano durare. Come negli anni ‘70 Varese, Cantù, poi Treviso: città che hanno un progetto, gente seria che lavora, poche persone che decidono. Il ritorno a quello che è stato nel passato. Il problema è capire quando c’è da fare il salto di qualità: prendiamo Venezia, vince il campionato e non può giocare l’Eurolega perché non ha il palazzo. Lì c’è un tappo. E anche senza pensare all’Eurolega, è importante avere palazzi adeguati ai piani, o si blocca il progetto».
Italiani in rampa di lancio?
«Della Valle mi piace per come gioca, lo spirito, la velocità: sembra una pallina da flipper, spumeggiante. Ammiro molto Flaccadori. Si parla sempre di piccoli però. Purtroppo non abbiamo lunghi, tanti ce li prende la pallavolo, e quelli bravi – come Cervi e Cusin – anche quando prendono posizione sono serviti poco, gli si chiedono blocchi, rimbalzi, stoppate, devono difendere sul loro uomo, sui blocchi alti, su chi entra, stoppare chi passa, fanno i chilometri, si caricano di falli e finiscono in panchina. In queste condizioni sono anche bravi».
Matteo Spagnolo che a 14 anni va al Real che segnale è?
«Bellisimo segnale per lui! Peccato che non l’abbia preso nessuna delle nostre squadre, speriamo che lo facciano diventare fortissimo, ci serve in Nazionale».
Le sue ex squadre: Varese?
«Si vede il lavoro di Caja, che già aveva salvato la squadra. Ha la sua concezione del lavoro, duro, la squadra per fortuna l’ha seguito: con un po’ di tempo e tanta applicazione arrivano i risultati».
Milano?
«Non è una squadra adatta a deboli di cuore, non ti fa mai rilassare. Quando va bene poi si spegne il motore, si fa rimontare e diventa tutto difficile. A volte ce la fa, altre no, e tutti dicono: con quel budget, con quell’allenatore, con quei giocatori, come fanno a perdere? Questo sorprende anche me».
Lei da presidente federale ha portato Pianigiani in Nazionale.
«L’avevo scelto per la qualità del lavoro e del gioco delle sue squadre, la capacità di gestire tanti giocatori buoni in una squadra che vinceva da anni, che vuol dire saper gestire anche una Nazionale fatta di 16 giocatori bravi. E’ un professionista del lavoro, pignolo, attento ai particolari. Ma serve tempo per ricostruire qualcosa, in campionato e in Eurolega non ce n’è. Il problema di Milano è che deve vincere, mentre per tante squadre arrivare secondi sarebbe un sogno».
Era così anche per l’Olimpia di Meneghin.
«La pressione c’è sempre stata. La società era un presidente, un gm e un coach, pochissime persone che gestivano il destino di una squadra. La scelta dei giocatori veniva fatta per questioni tecniche, fisiche e anche psicologiche: persone che sapessero stare al proprio posto, parte di una società forte ma anche consapevoli dei propri limiti. Come diceva Cosic, un gruppo in cui gli ingegneri fanno gli ingegneri e i muratori i muratori, però nel momento del bisogno l’ingegnere faceva il muratore e viceversa. Così la qualità degli allenamenti è altissima, giochi sempre con la stessa mentalità: per dirla con Nikolic, se sei avanti di 10 devi cercare di vincere di 20, se sei avanti di 20 devi vincere di 30 e così via, è una questione psicologica con gli avversari, se vinci di uno entrano in campo la volta successiva consapevoli di potercela fare».
Oggi è la Nazionale di Sacchetti.
«Meo non lo discuto: l’ho avuto come compagno di squadra, l’ho visto lavorare coi giovani nei camp estivi in Valsassina e in Cadore. E poi a Sassari: vuole giocatori che entrano in campo da protagonisti, non da portatori d’acqua, gente sveglia e pronta a fare. Il suo problema è che ha poco tempo a disposizione per lavorare. Se i giocatori lo seguono possono fare belle cose perché si sentono gratificati dal suo sistema di gioco».
Il tempo è poco: la nuova formula con le finestre invernali aumenta le occasioni per vedersi ma non il tempo per costruire.
«A fare tutto d’estate, non giochi mai in casa, a parte la preparazione, ed è un problema di immagine. C’erano comunque giocatori assenti perché dovevano riposare, recuperare. La pallavolo blocca addirittura il campionato, se lo fa anche il calcio che è centomila volte più grosso del nostro movimento, ci sarà un motivo, e nessuno si lamenta. Secondo me è una questione di abitudine. Sì, non abbiamo i giocatori Nba, ma anche d’estate fai fatica ad averli. Vale per tutti, e così c’è lo spazio per gli altri giocatori per fare esperienza, farsi conoscere e far vedere la qualità del lavoro loro e dei loro allenatori. Questa Nazionale bisogna spingerla...».
Perché è la locomotiva di tutto il movimento...
«Se vince la Nazionale è contenta tutta l’Italia, anche quelli che non sono tifosi di basket, però accendono il televisore, vedono l’Italia che gioca e fanno il tifo: come quando lo accendo io e vedo un italiano alle Olimpiadi nel salto in alto, sollevamento pesi, tiro con l’arco. Durante l’anno non lo guardo mai, ma se gareggia ai Giochi lo seguo perché è italiano. La Nazionale deve essere questo, la guida spirituale di tutto il movimento. Che è solido, abbiamo 150.000 bambini che giocano a basket, giovanili forti che vincono in Europa… Giocatori ne abbiamo, ma non ancora a sufficienza per una Nazionale competitiva ad altissimo livello, purtroppo. Arriveranno, ma se non fanno l’esperienza giusta è difficile che capiscano il clima europeo e la competizione, da noi sono usati poco: farli giocare anche durante l’anno li sveglia un po’, vedendo la differenza coi più bravi capiscono il lavoro da fare per arrivare al loro livello».
Pronostico playoff?
«Ci sono delle squadre che mi sembrano più attrezzate, che giocano una bella pallacanestro: le prime 4-5 possono tutte aspirare a vincere. Per la continuità di gioco e la completezza del roster Venezia mi sembra molto quadrata. Milano ha una panchina lunghissima, magari si son tenuti adesso per i playoff. Brescia è un’ottima squadra, ma per giocare ogni due giorni ho paura che sia un po’ corta. Trento credo che possa essere una sorpresa come l’anno scorso. Avellino può essere quella in cui gli americani improvvisamente decidono di giocare tutti insieme e diventa tosta. Ci sarà da divertirsi».