La Gazzetta dello Sport

«Bravo Matteo! Un grande segnale» È SPUMEGGIAN­TE UNA PALLINA DA FLIPPER: MI PIACE COME GIOCA DINO MENEGHIN SU AMEDEO DELLA VALLE

●«Peccato non lo abbia preso un’italiana, speriamo che lo facciano diventare forte, ci servirà in azzurro»

- Giuseppe Nigro

Il gigante e il bambino. Da una parte Dino Meneghin, 68 anni, il passato più splendente del nostro basket. Dall’altra Matteo Spagnolo, 14, la grande speranza per il futuro azzurro. Partiamo da ieri, dal monumento della pallacanes­tro italiana.

Dino Meneghin, oggi guarda il basket italiano e vede?

«La forza delle cosiddette provincial­i che riemerge dopo tanti anni: Venezia, Trento, Brescia. Società costruite nel tempo con piccoli passi ogni stagione, costruzion­i di squadre che non siano meteore ma possano durare. Come negli anni ‘70 Varese, Cantù, poi Treviso: città che hanno un progetto, gente seria che lavora, poche persone che decidono. Il ritorno a quello che è stato nel passato. Il problema è capire quando c’è da fare il salto di qualità: prendiamo Venezia, vince il campionato e non può giocare l’Eurolega perché non ha il palazzo. Lì c’è un tappo. E anche senza pensare all’Eurolega, è importante avere palazzi adeguati ai piani, o si blocca il progetto».

Italiani in rampa di lancio?

«Della Valle mi piace per come gioca, lo spirito, la velocità: sembra una pallina da flipper, spumeggian­te. Ammiro molto Flaccadori. Si parla sempre di piccoli però. Purtroppo non abbiamo lunghi, tanti ce li prende la pallavolo, e quelli bravi – come Cervi e Cusin – anche quando prendono posizione sono serviti poco, gli si chiedono blocchi, rimbalzi, stoppate, devono difendere sul loro uomo, sui blocchi alti, su chi entra, stoppare chi passa, fanno i chilometri, si caricano di falli e finiscono in panchina. In queste condizioni sono anche bravi».

Matteo Spagnolo che a 14 anni va al Real che segnale è?

«Bellisimo segnale per lui! Peccato che non l’abbia preso nessuna delle nostre squadre, speriamo che lo facciano diventare fortissimo, ci serve in Nazionale».

Le sue ex squadre: Varese?

«Si vede il lavoro di Caja, che già aveva salvato la squadra. Ha la sua concezione del lavoro, duro, la squadra per fortuna l’ha seguito: con un po’ di tempo e tanta applicazio­ne arrivano i risultati».

Milano?

«Non è una squadra adatta a deboli di cuore, non ti fa mai rilassare. Quando va bene poi si spegne il motore, si fa rimontare e diventa tutto difficile. A volte ce la fa, altre no, e tutti dicono: con quel budget, con quell’allenatore, con quei giocatori, come fanno a perdere? Questo sorprende anche me».

Lei da presidente federale ha portato Pianigiani in Nazionale.

«L’avevo scelto per la qualità del lavoro e del gioco delle sue squadre, la capacità di gestire tanti giocatori buoni in una squadra che vinceva da anni, che vuol dire saper gestire anche una Nazionale fatta di 16 giocatori bravi. E’ un profession­ista del lavoro, pignolo, attento ai particolar­i. Ma serve tempo per ricostruir­e qualcosa, in campionato e in Eurolega non ce n’è. Il problema di Milano è che deve vincere, mentre per tante squadre arrivare secondi sarebbe un sogno».

Era così anche per l’Olimpia di Meneghin.

«La pressione c’è sempre stata. La società era un presidente, un gm e un coach, pochissime persone che gestivano il destino di una squadra. La scelta dei giocatori veniva fatta per questioni tecniche, fisiche e anche psicologic­he: persone che sapessero stare al proprio posto, parte di una società forte ma anche consapevol­i dei propri limiti. Come diceva Cosic, un gruppo in cui gli ingegneri fanno gli ingegneri e i muratori i muratori, però nel momento del bisogno l’ingegnere faceva il muratore e viceversa. Così la qualità degli allenament­i è altissima, giochi sempre con la stessa mentalità: per dirla con Nikolic, se sei avanti di 10 devi cercare di vincere di 20, se sei avanti di 20 devi vincere di 30 e così via, è una questione psicologic­a con gli avversari, se vinci di uno entrano in campo la volta successiva consapevol­i di potercela fare».

Oggi è la Nazionale di Sacchetti.

«Meo non lo discuto: l’ho avuto come compagno di squadra, l’ho visto lavorare coi giovani nei camp estivi in Valsassina e in Cadore. E poi a Sassari: vuole giocatori che entrano in campo da protagonis­ti, non da portatori d’acqua, gente sveglia e pronta a fare. Il suo problema è che ha poco tempo a disposizio­ne per lavorare. Se i giocatori lo seguono possono fare belle cose perché si sentono gratificat­i dal suo sistema di gioco».

Il tempo è poco: la nuova formula con le finestre invernali aumenta le occasioni per vedersi ma non il tempo per costruire.

«A fare tutto d’estate, non giochi mai in casa, a parte la preparazio­ne, ed è un problema di immagine. C’erano comunque giocatori assenti perché dovevano riposare, recuperare. La pallavolo blocca addirittur­a il campionato, se lo fa anche il calcio che è centomila volte più grosso del nostro movimento, ci sarà un motivo, e nessuno si lamenta. Secondo me è una questione di abitudine. Sì, non abbiamo i giocatori Nba, ma anche d’estate fai fatica ad averli. Vale per tutti, e così c’è lo spazio per gli altri giocatori per fare esperienza, farsi conoscere e far vedere la qualità del lavoro loro e dei loro allenatori. Questa Nazionale bisogna spingerla...».

Perché è la locomotiva di tutto il movimento...

«Se vince la Nazionale è contenta tutta l’Italia, anche quelli che non sono tifosi di basket, però accendono il televisore, vedono l’Italia che gioca e fanno il tifo: come quando lo accendo io e vedo un italiano alle Olimpiadi nel salto in alto, sollevamen­to pesi, tiro con l’arco. Durante l’anno non lo guardo mai, ma se gareggia ai Giochi lo seguo perché è italiano. La Nazionale deve essere questo, la guida spirituale di tutto il movimento. Che è solido, abbiamo 150.000 bambini che giocano a basket, giovanili forti che vincono in Europa… Giocatori ne abbiamo, ma non ancora a sufficienz­a per una Nazionale competitiv­a ad altissimo livello, purtroppo. Arriverann­o, ma se non fanno l’esperienza giusta è difficile che capiscano il clima europeo e la competizio­ne, da noi sono usati poco: farli giocare anche durante l’anno li sveglia un po’, vedendo la differenza coi più bravi capiscono il lavoro da fare per arrivare al loro livello».

Pronostico playoff?

«Ci sono delle squadre che mi sembrano più attrezzate, che giocano una bella pallacanes­tro: le prime 4-5 possono tutte aspirare a vincere. Per la continuità di gioco e la completezz­a del roster Venezia mi sembra molto quadrata. Milano ha una panchina lunghissim­a, magari si son tenuti adesso per i playoff. Brescia è un’ottima squadra, ma per giocare ogni due giorni ho paura che sia un po’ corta. Trento credo che possa essere una sorpresa come l’anno scorso. Avellino può essere quella in cui gli americani improvvisa­mente decidono di giocare tutti insieme e diventa tosta. Ci sarà da divertirsi».

 ??  ?? IL MONUMENTO
Dino Meneghin, alto 2.04, ha 68 anni. Ha vinto 12 scudetti, 6 Coppe Italia, 7 Coppe Campioni, 2 Coppe delle Coppe, 1 Korac e 4 Coppe Interconti­nentali con Varese e Milano tra il 1966 e il 1994. Una medaglia d’oro e due di bronzo agli...
IL MONUMENTO Dino Meneghin, alto 2.04, ha 68 anni. Ha vinto 12 scudetti, 6 Coppe Italia, 7 Coppe Campioni, 2 Coppe delle Coppe, 1 Korac e 4 Coppe Interconti­nentali con Varese e Milano tra il 1966 e il 1994. Una medaglia d’oro e due di bronzo agli...
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy